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Gli angeli necessari di Anselm Kiefer
In mostra a Firenze uno dei massimi artisti contemporanei. Le visioni e le composizioni ciclopiche del maestro tedesco, la forza alchemica di materiali, filosofie e mitologie. Una riflessione mai conclusa e potente sulla storia e il Novecento
"Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio? / La vita sotto il sole è forse solo un sogno?”. O forse il tempo e lo spazio sono la materia unica di un’eterna lotta tra angeli vittoriosi e angeli ribelli, cioè tutti noi, creature precipitate? All’inizio della magnifica mostra di Anselm Kiefer a Palazzo Strozzi, “Angeli caduti”, proprio nel cortile rinascimentale, esposta alle intemperie e agli occhi di tutti, c’è la Caduta dell’Angelo. Anzi Engelssturz, ha scritto l’artista in alto a sinistra con la spigolosa calligrafia infantile con cui spesso aggiunge parole ed enigmi alle sue opere. E’ un grandioso dipinto, terminato nel 2023, di sette metri per otto. Nella parte superiore, un cielo maggiore in foglia d’oro come nell’arte antica, l’arcangelo Michele ha appena precipitato nel caos della materia gli angeli ribelli, in un magma di acrilico e gommalacca che imprigiona tessuti, abiti, jeans e volti umani capovolti nella caduta. Noi, la nostra storia. Davanti agli angeli schiantati di Kiefer è difficile resistere alla suggestione di ricordare gli angeli di Wim Wenders, che si esiliano volontariamente da un cielo che sta troppo sopra, troppo poco interessante, per scendere con bonario sorriso nelle strade e nei destini dei viventi. Nei versi della poesia filastrocca di Peter Handke che apre Il cielo sopra Berlino, quando il bambino era bambino “si immaginava chiaramente il Paradiso, / e adesso riesce appena a sospettarlo, / non riusciva a immaginarsi il nulla, / e oggi trema alla sua idea”. L’infinito precipitare degli angeli, volontari e sorridenti come quelli di Wenders o schiantati nell’inferno della materia come Luzifer, che è il titolo del potente lavoro che riempie la prima sala della mostra, con quell’ala di piombo pesante e tridimensionale: in fondo, per chi si occupa di angeli, sono la stessa cosa, la stessa battaglia per afferrare un senso, per quanto provvisorio. La suggestione tra le diverse precipitazioni angeliche non è solo legata al docufilm che il regista di Düsseldorf ha realizzato con l’artista e che a breve vedremo anche in Italia, Anselm - Il mormorio del tempo; non solo al fatto che siano amici – una riga nel diario di Kiefer, 1992, riporta senza altri commenti il nome, “Wim Wenders”, dopo l’incontro avvenuto all’Exil di Berlino, il locale preferito del regista. Nemmeno nasce, l’accostamento, per il fatto che siano coetanei, nati entrambi nel 1945 tra le macerie della guerra (Kiefer è nato a Donaueschingen nella Foresta Nera ed è cresciuto sulle rive del Reno, altro riferimento mitico della sua poetica) e che abbiano fatto di quelle macerie, di quella memoria tortuosa e cancellata della loro Germania “pallida madre”, sostanza della loro arte.
L’arcangelo Michele ha appena precipitato gli angeli ribelli, in un magma di acrilico e gommalacca che imprigiona tessuti, abiti, jeans: noi
“Quando Dio creò il mondo ci fu subito una ribellione degli angeli. Che volevano essere come Dio”, ha detto Kiefer installando a Firenze il suo dipinto. E nella conversazione in catalogo con Arturo Galansino, direttore di Palazzo Strozzi e curatore della mostra, ha spiegato la scelta di cominciare proprio con quell’opera, Engelssturz, come fosse un’origine del mondo. La cacciata di Lucifero “per i cristiani è l’inizio del Mondo, l’inizio del Male. Gli ebrei hanno un’altra spiegazione… all’inizio Dio si è ritirato. Ha creato uno spazio libero. E questo è più intelligente. Dio ha versato la sua grazia sul mondo e il mondo non l’ha accolta”. La lotta degli angeli ribelli è uno dei grandi simboli filosofici e poetici del Novecento, angeli necessari e angeli sterminatori o raramente salvifici. Sono il tema di una ribellione alla condizione umana che è anche una ricerca dello spirito dentro a un secolo segnato dalla dissipazione e dalla distruzione. Lo spirito, la materia – tutte le materie che si possano trasformare in strumenti d’arte –, la distruzione e la rinascita sono la scaturigine dell’arte e della letteratura, e anche di molto cinema, del Novecento. “Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa”, è una frase di Louis-Ferdinand Céline, scrittore molto amato da Anselm Kiefer, che lo storico dell’arte Vincenzo Trione cita in apertura del suo affascinante viaggio-saggio dedicato all’artista tedesco, Prologo celeste - Nell’atelier di Anselm Kiefer.
Kiefer è un genio fuori scala, monumentale (“ma non sono barocco”, dice di sé). Per i materiali che usa, per le sue celebri Torri celesti, per le gigantesche mappe del cielo trasposte da quelle della Nasa, per i suoi libri di piombo pesanti come tutta la conoscenza del mondo. Un’immaginazione senza freni, fatta di coerenze e trasformazioni ed eterni ritorni. Fitta di mille richiami filosofici, esoterici, religiosi: dal cristianesimo all’islam all’ebraismo, dai presocratici al Rinascimento all’alchimia – il piombo, il metallo di Saturno e della melanconia, il materiale alchemico per eccellenza è una delle sue materie predilette. Quando restaurarono il tetto del duomo di Colonia acquistò tutto il piombo dismesso per riutilizzarlo nei suoi atelier. Eppure questa stratificazione di sensi e rimandi non allontana chi guarda, come accade spesso con l’arte contemporanea. L’impatto estetico ed emotivo, anche per i non specialisti, è potente, riguarda una ricerca innanzitutto umana. Il visivo prevale sempre. Trione cita il prologo del Gilgamesh, “la cui ombra da anni viene frequentata da Kiefer”: “Colui che vide il Profondo, il fondamento del paese… / vide ciò che era segreto, svelò ciò che era nascosto”. Così sorprendono le grandi tavole in foglia d’oro dedicate al Sol Invictus e al sogno trasgressivo e anarchico di Eliogabalo di trasformarsi egli stesso in oro. E’ un’altra via della stessa ribellione alla morte e alla materia, come fanno anche gli amati giganteschi girasoli che Kiefer coltiva nella sua leggendaria tenuta-atelier nel sud della Francia, La Ribaute a Barjac, e che spesso entrano, trasformati, nelle sue opere. Così come entrano addirittura i carciofi mammola nella tela dedicata alla ninfa Cynara, che respinse Zeus e fu da lui trasformata nel vegetale spinoso. Kiefer è infinitamente lontano dal compiaciuto e pacato nichilismo post umanista, o transumano, che affascina molta della filosofia e dell’arte contemporanee, dove per lasciare posto alla natura o al peso della scienza sulle nostre esistenze corre l’obbligo di dislocare in un angolo la necessità dell’agire umano e la sua ricerca, che non è mai solo fisica. “Kiefer sembra aver agito come chi, in seguito a un lutto, si dedica a estrarre le rovine di un’apocalisse infinita di esseri umani, alludendo alla concezione del passato come a un immenso cumulo di rovine sparpagliate e ammucchiate”, scrive Trione, cogliendo il cuore di un artista che ha sempre scavato, anche fisicamente, in un paesaggio culturale, morale e storico di rovine – la nostra contemporaneità, il suo e nostro secolo – per ricostruire una bellezza provvisoria ma necessaria.
Un’immaginazione fitta di mille richiami filosofici, esoterici, religiosi. E di materiali ciclopici trasformati come nell’antro di un alchimista
C’è un ricordo biografico che accomuna anche altri artisti tedeschi della sua generazione, quello delle Trümmerfrauen, le “donne delle macerie” che nel Dopoguerra recuperavano mattone su mattone tutto ciò che era stato distrutto, lo ripulivano, lo riutilizzavano. Esattamente come lui sempre recupera e trasforma ogni cosa, persino i blocchi d’asfalto presi dai cantieri stradali, nei ciclopici spazi dei suoi atelier-antri alchemici: quando si trasferì a La Ribaute dalla Germania, con cui vanta un rapporto da sempre non pacificato, ci vollero settanta camion per trasportare i suoi materiali. Nelle sue tele s’impiglia tutto, vernici, sabbie, semi di girasole, acciaio e piombo, oro e pietra e gommalacca. Un corpo a corpo continuo e mai finito (Kiefer modifica in continuazione le sue opere: il tempo è la dimensione del tutto) con le religioni, le filosofie, le memorie, la storia. Quella di Kiefer “è una conoscenza eclettica e propriamente faustiana”, scrive il filosofo Maurizio Ferraris nel saggio in catalogo (Marsilio Arte). Dopo aver visto gli immensi hangar di Barjac, il gigantesco “Anfiteatro” che ne è l’enigmatico edificio centrale – colate di cemento a coprire carcasse di vecchi container – e i chilometrici sotterranei che l’artista-demiurgo ha scavato come antri mitologici, Trione annota: “Opere che sembrano provenire dalla preistoria o, forse, da un tempo che ancora non c’è”. Di lui il suo amico Wim ha detto: “Un uomo che non ha paura di dipingere nulla. Può dipingere l’universo e può dipingere formule matematiche e può dipingere la storia e può dipingere miti, biologia, alchimia. Non ha paura di nessuna conoscenza umana”.
“Opere che sembrano provenire dalla preistoria o, forse, da un tempo che ancora non c’è”, scrive lo storico dell’arte Vincenzo Trione
Nel 2022 l’artista tedesco prese possesso della Sala dello scrutinio di Palazzo ducale a Venezia, nascondendola con le sue enormi tele e con l’evocazione di un titolo apocalittico e profetico: “Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce” (il filosofo è Andrea Emo). Questa volta, più che impossessarsi di Palazzo Strozzi, luogo che ama e rispetta dalla gioventù, è come se abbia voluto farlo esplodere, sala dopo sala, in una dimensione di pura fusione materiale, quasi a far rivivere per il visitatore l’energia dei suoi laboratori. Non è un flaneur del caos primordiale, nemmeno nella stanza più suggestiva della mostra fiorentina, una vera Wunderkammer coperta fino al soffitto da sessanta opere di ragguardevole dimensione e di forza materica, e raddoppiate dal pavimento coperto con uno specchio: li ha chiamati Dipinti Irradiati, ma verrebbe da dire esplosi, opere alcune recenti e altre più datate trattate col plutonio. Quasi a significare una prossima (o già avvenuta?) catastrofe atomica.
“Quando il bambino era bambino, / lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia, / che ancora continua a vibrare” (Peter Handke)
Nell’ultima sala invece la storia torna a prendere il sopravvento sull’alchimia e sulla profezia, ed è il tema di una “storia naturale della distruzione”, per evocare il titolo del drammatico saggio di W.G. Sebald sulle macerie del nazismo e sulla rimozione, assieme alle macerie, anche di ogni giudizio tedesco sul nazismo. In grandissimo formato, su fogli di piombo, sono ristampate quattro fotografie della serie Heroische Sinnbilder, “simboli eroici”, in cui ancora studente all’Accademia, 1969, si fece ritrarre nell’uniforme della Wehrmacht di suo padre mentre tende il braccio con un (decisamente poco eroico e ironico) Sieg Heil, il saluto (alla vittoria) nazista. Era un modo per stanare la Germania sul passato con cui non aveva fatto i conti, e in quegli anni fu un obiettivo di tanti scrittori, artisti, registi. Ma nel suo caso non fu preso bene, le polemiche furono aspre e mai sanate. Nel 1980 Kiefer fu scelto in coppia con un altro gigante tedesco dell’arte del Novecento, Georg Baselitz, per rappresentare la Germania alla Biennale di Venezia. Baselitz espose una monumentale scultura antropomorfa in legno, tipica del suo stile, con un braccio teso a evocare il saluto nazista; Kiefer una serie di opere intitolate programmaticamente “Bruciare, lignificare, affondare, insabbiare” in cui evocava gli Eroi tedeschi dello spirito. Anche in quel caso non furono digeriti, per lui e per Baselitz ci furono accuse di voler glorificare il passato. Del resto il peggior nemico dell’arte non è la censura, ma la miopia di chi guarda. Passati molti anni, e in contesto internazionale tanto diverso e drammatico, queste opere di mezzo secolo fa di Kiefer servono a dimostrazione che se c’è ora in Italia una mostra necessaria da vedere, è questa. L’opera di un artista che rende attuali anche i versi per Wenders di Peter Handke: “Quando il bambino era bambino, / lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia, / che ancora continua a vibrare”.