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Le femministe del dragone

Tra #MeToo e incentivi alla procreazione, in Cina le donne hanno fame di libertà

Annamaria Guadagni

L'effervescenza delle donne cinesi appare evidente sfogliando la classifica dei libri più venduti in Cina nell’ultimo anno, Indizi nei saggi e nei romanzi che leggono

Una terrestre su cinque vive in Cina: sapere come vivono, che cosa pensano e cosa desiderano, come vedono il futuro le donne cinesi è rilevante e chiunque abbia occasione di mettere anche soltanto il naso laggiù fiuta una vivacità straordinaria e torna con una valigia piena di domande. Un indizio di questa effervescenza appare evidente sfogliando la classifica dei libri più venduti in Cina nell’ultimo anno, l’intero 2023. Prima osservazione generale: tra i dieci più popolari in assoluto, sei sono testi di autori stranieri e già questo depone per un’apertura sul mondo della società civile. In testa alla top ten c’è il bestseller assoluto di Hu Anyan, autore che conosce  bene la crudeltà del precariato avendo fatto in vita sua un po’ di tutto, dalla guardia notturna al rider in spietata lotta contro il tempo. Ma il dato clamoroso è che i romanzi e i saggi che indagano la vita, la storia, i sentimenti  dal punto di vista delle donne sono cinque su dieci. 


Anche in Cina ci sono più lettrici che lettori, ma il dettaglio si fa appariscente quando si scopre che tre dei bestseller nella top ten sono firmati da femministe radicali. Da noi abbiamo visto qualcosa del genere solo in presenza di grandi ondate di movimenti di protesta. Infatti la Cina ha avuto un suo – subito represso – #MeToo e al quarto posto, tra i libri più letti dell’anno, troviamo “Il consenso”: memoir dell’editrice e regista francese Vanessa Springora, che solo da adulta è riuscita a raccontare la relazione vissuta a quattordici anni (con una madre tollerante per non passare da retrograda) con lo scrittore Gabriel Matzneff allora cinquantenne, seduttore seriale di ragazzini diventati amanti e muse di creazioni letterarie: questo libro, molto più interessante e sofisticato di un manifesto di denuncia, in Europa è stato allineato tra le bandiere del #MeToo. Gli altri due bestseller sono testi teorici: una raccolta di scritti della sociologa giapponese Chizuko Ueno, che in Cina da qualche anno occupa le classifiche con i suoi libri ed è diventata un’icona del femminismo; e un saggio della sociologa italiana, naturalizzata americana, Silvia Federici, intitolato “Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria”, da noi pubblicato da Mimesis. 


Silvia Federici, legata al gruppo storico padovano di Maria Rosa Dalla Costa che rivendicava il salario per le casalinghe, ha studiato il lavoro riproduttivo misurandosi con Marx dal punto di vista femminista (e gli effetti si vedono, come dimostra la sua posizione sul medio oriente. raccontata da Giulio Meotti). In questo saggio torna all’inizio della storia moderna e alle origini dello sviluppo capitalistico per leggerne la relazione con la repressione degli eretici e delle streghe. Sua la tesi secondo la quale l’accumulazione primitiva non è una premessa del capitalismo ma una sua necessità costante. Forse non è poi così sorprendente che un saggio del genere, non proprio divulgativo, trovi tanti lettori in un paese dove la cultura marxista ha avuto larga diffusione e  che – virando verso il capitalismo – negli ultimi quarant’anni ha vissuto un gigantesco processo di accumulazione, comprimendo anche la libertà delle donne

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Ma le sorprese indiziarie sulle abitudini di lettura dei cinesi non sono finite. A sfogliare la classifica dei dieci libri stranieri di fiction più venduti nell’ultimo anno – tra Mario Vargas Llosa e David Foster Wallace – troviamo due italiani: Primo Levi con “Auschwitz città tranquilla” e Elena Ferrante con “I giorni dell’abbandono”. Questa autrice, sbarcata in Cina nel 2017 con la saga de “L’amica geniale”, ha avuto un successo di pubblico paragonabile a quello ottenuto negli Stati Uniti: 350 mila recensioni su Douban.com, il più importante network di scambi culturali, mentre le prime tre stagioni della serie televisiva di Rai Fiction-Hbo –  distribuita su tre tra le più importanti piattaforme, iQIYI e Youku di proprietà di Alibaba, e Tencent Video –  sono state seguite da 250 milioni di spettatori.  A tutto questo aggiungerei che “L’ordine simbolico della madre” della filosofa italiana Luisa Muraro, teorica del femminismo della differenza, è ora in corso di pubblicazione.   


Merita un piccolo ingrandimento, perché in Italia non è ancora tradotta mentre in estremo oriente è certamente una star, Chizuko Ueno. Docente emerita di sociologia all’università di Tokyo, grande vivacità intellettuale e insieme capacità di esprimersi in modo semplice e provocatorio, Ueno ha 75 anni, è stata moglie dello storico giapponese Daikichi Irokawa, porta il basco calzato sui capelli corti e rossi d’henné, e in Cina è un fenomeno editoriale: due anni fa sette dei suoi libri sono stati alternativamente  in classifica. I suoi lavori più importanti sono studi sulla famiglia, il patriarcato, la misoginia, e sul rapporto tra nazionalismo e capitalismo in Giappone; “Scratch and patriarchy and capitalism”, secondo dati ricavati da Beijing Open Book, in Cina ha venduto più di un milione di copie.


Chizuko Ueno è diventata punto di riferimento del femminismo in estremo oriente dopo un celebre discorso d’inaugurazione  dell’anno accademico  2019, diventato virale in rete, con il quale denunciava politiche sessiste nei processi di ammissione all’università, abusi sessuali nei confronti delle studentesse, discriminazioni nel conseguimento di risultati accademici. Nella sua visione, il femminismo non è solo rivendicazione di diritti, è una questione di sopravvivenza; ed è difficile darle torto, considerando le condizioni di vita delle donne in molti paesi. Ueno ha sostenuto la causa dei risarcimenti dovuti alle donne soprattutto coreane – si calcola un numero tra 50 e 200 mila – che, durante la Seconda guerra mondiale, furono reclutate in modo coatto, costrette alla prostituzione e utilizzate come schiave del sesso al seguito delle truppe giapponesi. Ma è stata anche aspramente criticata per essersi opposta, in nome della libertà di espressione, a perseguire penalmente la storica coreana Park Yu-ha che di quella tragica storia ha dato una lettura molto più sfumata ed è stata accusata di negazionismo. Per Ueno tutte le tesi, anche quelle sbagliate, hanno diritto di cittadinanza. Insomma è un personaggio davvero interessante e il suo enorme successo registrato in Cina è indubbiamente un sintomo: fame di prodotti culturali che alimentano un sommovimento profondo della società, che si vede poco perché non può uscire allo scoperto, ma vive soprattutto grazie ai social media, dove la parola femminismo è vietata dalla censura


La storia delle ultime ondate del femminismo cinese la si trova in un libro della giornalista sino-americana Leta Hong Fincher, firma del New York Times, del Washington Post e del Guardian, appena pubblicato in Italia dall’editore add. Il suo “Tradire il Grande fratello. Il risveglio femminista in Cina”, tradotto da Margerita Emo e Piernicola D’Ortona, comincia dalle ormai famose Feminist five, le cinque ragazze che l’8 marzo del 2015 furono arrestate per aver distribuito adesivi contro la violenza sessuale su metropolitane e autobus. L’arresto arbitrario e i quasi quaranta giorni di detenzione delle cinque attiviste furono oggetto di una campagna di solidarietà internazionale, ma soprattutto scatenarono in Cina l’indignazione e la rabbia di migliaia di studentesse, avvocate, intellettuali e operaie; anche molti uomini le difesero sui social media e una delle arrestate, Wei Tingting, riuscì a postare sotto pseudonimo un resoconto della sua prigionia, dando il via a una sorta di guerriglia per beffare la censura. Su Weibo e WeChat, i corrispettivi cinesi di X e WhatsApp, giravano foto in cui gruppi di ragazze in ogni dove mangiavano al ristorante o facevano spese al mercato indossando maschere con le facce, ricavate da fotografie, delle favolose cinque.


Nella sua introduzione all’edizione italiana, Hong Fincher contestualizza la questione: in Cina il femminismo disturba parecchio perché la popolazione invecchia, crollano nascite e matrimoni, e il governo ha lanciato una nuova politica demografica: tre figli per ogni famiglia e “una nuova cultura del matrimonio e della maternità”. Però i sondaggi dicono che i giovani tra i 17 e i 26 anni (le ragazze soprattutto) non ne vogliono sapere. Il richiamo alla procreazione naturalmente vale per la maggioranza di etnia han, mentre per le minoranze, principalmente quella uigura, vale ancora la dissuasione coercitiva ad avere più figli. La renitenza al matrimonio e alla procreazione è stata combattuta con campagne per stigmatizzare il nubilato, indicando le trentenni non ancora sposate come “scarti”, zitelle si direbbe qui, con l’effetto di far infuriare le nuove generazioni.  Li Yuan, giornalista con milioni di follower su Weibo – oggi vive negli Stati Uniti ma all’epoca era responsabile del sito del Wall Street Journal a Pechino –  in risposta alla campagna matrimoniale scrisse un post che suonava così: “Non c’è nulla da temere nell’essere single. Non affrettatevi a sposarvi solo perché avete paura di diventare ‘scarti’. Passare tutta la vita a soddisfare le richieste altrui è un tradimento verso voi stesse”. A questo clima bisogna aggiungere – analizza Hong Fincher – che anche in Cina, con la reclusione da pandemia, c’è stato – secondo fonti della polizia citate da Reuters – un aumento esponenziale della violenza domestica, e che lo smantellamento delle politiche egualitarie centralizzate, perseguito negli ultimi decenni per lasciare spazio al mercato, ha prodotto nuove disparità. Un esempio è nella differenza salariale tra i sessi: il compenso medio annuo femminile sarebbe sceso, rispetto a quello maschile, di dieci punti in vent’anni. E così nella privatizzazione dei beni, dove l’allentamento delle tutele nella stipula degli atti di proprietà per esempio, ha denudato i rapporti di forza famigliari e le donne hanno perso i loro diritti sugli immobili. Nel 2011, infatti, la Corte suprema del popolo ha rivisto la legge sul matrimonio, affermando che la proprietà degli immobili di famiglia appartiene a chi firma i contratti, cioè al marito nella maggior parte dei casi. Quando ha preso piede il #MeToo nel 2018, il quadro era già abbastanza carico di risentimento. 


Le nuove generazioni femministe sono figlie dei social media e lì si muovono abilmente. L’hashtag #MeToo e le decine di petizioni contro le molestie sessuali negli atenei, firmate da ragazze e ragazzi, sono stati presto censurati e considerati una forma di infiltrazione ideologica occidentale; Huang Xueqing, giornalista e animatrice del movimento, si è fatta due anni di carcere. Ma le ragazze si sono inventate uno slang per far passare ugualmente  la comunicazione e così #MeToo è stato sostituito dalle emoji del coniglio e del riso, perché in cinese le due parole suonano: mi tu. La giornalista Wanqing Zhang, una freelance che copre la Cina da Bruxelles per Rest of the World e che ha appena ricevuto il premio speciale Inge Feltrinelli per un reportage sul femminismo cinese online, “duramente perseguitato ma molto influente”, racconta che la guerriglia si è inasprita perché alla censura del governo e delle piattaforme si sono aggiunti influencer nazionalisti con comunità di milioni di utenti, prevalentemente uomini, che conducono guerre di trolling  coordinato. Il profilo comunitario femminista più importante, “Voci femministe”, è stato chiuso nel 2018 e la sua fondatrice Lu Pun è ormai esule a New York. 
Le ragazze cinesi, racconta Leta Hong Fincher, si rifanno al femminismo borghese del primo Novecento. La figura storica che ha dato inizio alla guerra al patriarcato è Qiu Jin, scrittrice e rivoluzionaria:  nel 1904 lasciò il marito e due figli per andare a studiare in Giappone, a Tokyo teneva conferenze agli studenti cinesi, talvolta vestiva da uomo come George Sand. Al suo ritorno in Cina, fu decapitata per cospirazione contro la dinastia imperiale Qing, aveva appena trent’anni e non riuscì a terminare la sua opera intitolata “Pietre dell’uccello Jingwei”. Non c’è possibile dubbio sul fatto il risveglio femminista cinese  sia un risultato – è stato così ovunque – del processo di scolarizzazione avanzata delle nuove generazioni femminili.  In un articolo su Discuss Japan, analizzando l’impatto dei libri e delle teorie di Chizuko Ueno in Cina, Faruki Masaco, docente di giapponese all’Università di Pechino, osserva che questo fenomeno interessa soprattutto ragazze altamente scolarizzate tra i venti e i quarant’anni: sono tutte figlie uniche, nate in famiglie formate da tre singoli individui quando era vietato avere più di un figlio. 


Abbiamo conosciuto quel tempo nel racconto del premio Nobel cinese Mo Yan. Nel suo romanzo “Le Rane” (Einaudi, 2013), attraverso la storia di una levatrice, rivive la tragedia di milioni di donne sterilizzate o costrette ad abortire per non avere più di un figlio. Nella Cina rurale, quando l’ecografia rivelava che era attesa una femmina, molte coppie decidevano di interrompere la gravidanza per poter avere, come figlio unico, un maschio.  Ma tutto questo ha avuto una paradossale altra faccia della medaglia. Tra la popolazione urbanizzata, dove le bambine sono state accettate e sono nate figlie uniche, sono state sostenute negli studi e investite del compito di promuovere socialmente la famiglia: sono loro che oggi reclamano l’autorealizzazione e un altro posto nel mondo. Gli storici la chiamano eterogenesi dei fini: persegui un risultato, ne ottieni un altro. Alla gente comune basta dire che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

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