Libri nei rifiuti
Quanti manoscritti cestinati sono diventati bestseller. La ricetta del romanzo “che vende” non esiste
I best seller, specialmente in campo narrativo, spuntano non si sa dove né quando. Per trovare il grande caso editoriale bisogna essere un po' avventurosi e imprudenti
Nel 1994, esattamente trent’anni fa, invase le librerie uno dei più clamorosi fenomeni editoriali della storia letteraria moderna, perlomeno in Italia: “Va’ dove di porta il cuore” di Susanna Tamaro. Un romanzo pubblicato dalla casa editrice Baldini&Castoldi, una piccola imbarcazione corsara che stava sfidando da qualche anno i transatlantici della grande editoria.
Era diretta da Alessandro Dalai il quale, complice lo spiritello curioso e onnivoro di Oreste del Buono (OdB per chi gli voleva bene sin dai tempi eroici di Linus), aveva già offerto rifugio al duo Gino e Michele, messo all’indice dalla paludata Einaudi per un titolo che suonava come una profanazione: “Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano”. Dalai prese le formiche e fu un altro bestseller (per restare in argomento) sfuggito ai radar un po’ appannati dei grandi marchi blasonati. I quali non videro nemmeno arrivare Susanna Tamaro, e Baldini&Castoldi, malgrado il tempestoso malumore di Cesare De Michelis che aveva già ospitato l’autrice presso la sua Marsilio e se ne sentiva tradito, imboccò una strada completamente libera.
Fu uno straordinario boom: 15 milioni di copie vendute con un mare di traduzioni, un eccellente film di Cristina Comencini con Virna Lisi come protagonista, diritti sontuosi in tutto il mondo. Ma nella provincia italiana la Tamaro restò l’outsider, la reietta. Non le fu dedicata nemmeno una recensione (cretinismo ideologico? Pigrizia? Rodimento? Paleo-amichettismo?) nel circuito mediatico-editoriale che i populisti chiamerebbero dell’establishment patentato. Un’ostilità mai dissimulata e che esplose con cattiveria pochi anni dopo con “Anima mundi”. Un’editoria che non seppe imparare la lezione, persa nella foresta di occasioni perdute, di sciocchi dinieghi, di ottusi pregiudizi, che ne ha accompagnato sin dai primordi la brillante storia. Da sempre. In Italia e nel mondo.
Un’editoria che aveva avuto la cattiva creanza, e l’ottusità, di rispedire bruscamente al mittente tutti i manoscritti inviati da Guido Morselli, che non ebbe nemmeno la felicità di vedere il suo primo libro pubblicato, “Roma senza Papa”, nel 1974, l’anno successivo alla sua morte. Anzi, che ancora più tragicamente si uccise, stanco e devastato da una vita di rifiuti e di manoscritti spietatamente restituiti, pochi giorni prima che l’Adelphi gli comunicasse che sì, il suo libro era stato accettato. Una storia raccontata in quell’indispensabile e dettagliatissimo monumento alla stupidità editoriale scritto da Mario Baudino con il titolo “Il gran rifiuto” (Longanesi) che ci comunica almeno tre verità.
Primo: non esiste la ricetta del libro costruito per vendere molto: se ci fosse gli editori ne sfornerebbero uno al giorno, anche se a tutti quelli che fanno i saccenti sulle leggi sacre dell’editoria piace diffondere l’idea di saperla lunga, come se nelle segrete stanze i diavoli del mercato si fabbricassero davvero libri di sicuro successo. Secondo: per lo più i best seller, specialmente in campo narrativo, spuntano non si sa dove né quando: Feltrinelli pubblicò “Il dottor Zivago” perché era coraggioso, non perché fosse un abile rabdomante che era inciampato in una miniera d’oro. Terzo: per trovare il grande caso editoriale bisogna essere un po’ avventurosi e imprudenti, come la piccola casa editrice L’orma con Annie Ernaux quando Annie Ernaux non se la filava nessuno e i giganti editoriali sonnecchiavano satolli.
Poi c’è una quarta legge: il balletto degli ottusi rifiuti editoriali non è certo una specialità italiana. J. K. Rowling mandò a una quindicina di case editrici il suo Harry Potter e ne ebbe quindici dolorosi rifiuti accompagnati dall’invito a continuare la sua vita di impiegata per non morire di fame. Risultato: 450 milioni di copie vendute e una quantità pazzesca di miliardi guadagnati con il cinema (ora la femminista Rowling è costretta a una vita blindata, accusata dalle squadracce di fanatic* di essere “transfobica”, mah). Nabokov incassò quattro rifiuti dalle grandi case editrici per “Lolita” (“non pubblichiamo libri pornografici”) e per la delusione stava quasi per dare alle fiamme il manoscritto, salvato dal provvidenziale intervento della moglie Vera. “Il giorno dello sciacallo” di Frederick Forsyth: “Il suo libro non interessa a nessuno”, dieci milioni di copie. “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry, di cui scrive Baudino: “troppo lungo”, “flashback noiosi e poco convincenti”, nessuna speranza di vendita con tutto questo “flusso di coscienza” e solo la quarta stesura venne pubblicata: bestseller mondiale. “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust: secondo uno dei due editori che lo rifiutò era di “lunghezza eccessiva”, e il secondo editore, André Gide per Gallimard, nemmeno lo lesse, anche se in seguito confesserà di essersene amaramente pentito.
“Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez: respinto da una prestigiosa casa editrice di Barcellona che in seguito dirà di aver ricevuto il manoscritto quando l’editore era in ferie, che sfortuna. Robert M. Pirsig ha scritto in “Sulla qualità” (Adelphi) a proposito del suo “Lo Zen l’arte della manutenzione della motocicletta”: “Dei 121 editori che avevo contattato, circa 22 avevano apprezzato l’idea iniziale e quando la seconda stesura fu pronta ne restavano solo sei. A quei sei inviai il manoscritto completo. E di quei sei solo uno decise di pubblicarlo”. “Carrie” di Stephen King: “Non siamo interessati alla fantascienza distopica. Non vende”. Si dice anche che un funzionario della Rizzoli disse a suo tempo lo stesso “non vende” dopo aver letto il manoscritto tradotto del “Codice da Vinci” di Dan Brown. Alla fine lo prese il concorrente Mondadori: si narra di un licenziamento in tronco alla Rizzoli.
Umberto Eco, che con il suo “Nome della rosa” di bestseller se ne intendeva, aveva già nel 1963 parodiato come frammenti di un’immaginaria antologia involontariamente comica nel “Diario minimo” il misto di incompetenza, sussiego, superficialità con cui gli editori avrebbero avuto la superba faccia tosta di bocciare alcuni grandi classici della cultura universale. “Il processo” di Kafka: “Il libretto non è male, è giallo con certi momenti alla Hitchcock… Ma cosa sono queste allusioni imprecise, questa mancanza di nomi di persone e di luoghi? E perché il protagonista va sotto processo?”, bisogna dare “fatti, fatti, fatti”. “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni: “Basti aprire la prima pagina e vedere quanto l’autore ci mette ad entrare nel vivo delle cose, con una descrizione paesaggistica dalla sintassi irta e labirintica, tale che non si riesce a capire di che parli mentre sarebbe stato più spiccio dire, che so, ‘una mattina, dalle parti di Lecco’”. “Odissea”: “La storia è bella, appassionante, piena di avventure. C’è quel tanto di amore che basta, la fedeltà coniugale e le scappatelle adulterine (buona la figura di Calipso, una vera divoratrice d’uomini), c’è persino un momento ‘lolitistico’ con la ragazzina Nausicaa, in cui l’autore dice e non dice, ma tutto sommato eccita. Ci sono colpi di scena, giganti monocoli, e persino un po’ di droga”, dunque “questo Omero è veramente bravo, ma mi chiedo se sia tutta farina del suo sacco, mi insospettisce e mi induce a dare parere negativo il caos che ne seguirà sul piano dei diritti. Lo ha scritto lui o era solo un prestanome?”. La Bibbia: “Quando ho cominciato a leggere il manoscritto ne ero entusiasta. E’ tutto azione e c’è tutto quello che il lettore di oggi chiede a un libro di evasione: sesso (moltissimo), con adulteri, sodomia, omicidi, incesti, guerre, massacri e così via… L’episodio di Sodoma e Gomorra con i travestiti che vogliono farsi i due angeli è rabelesiano, le storie di Noè sono del puro Salgari”, ma poi “andando avanti mi sono accorto che si tratta invece di una antologia di vari autori, con molti, troppi brani di poesia, alcuni francamente lamentevoli e noiosi, vere e proprie geremiadi senza capo né coda”.
Sembra, parola parola, tono su tono, l’Elio Vittorini che nella realtà, non nella fantasia di Umberto Eco, bollò come irricevibile il manoscritto del “Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, poi recuperato da Giorgio Bassani per Feltrinelli (che fece il bis di vendite clamorose dopo Pasternak e farà il tris clamoroso con García Márquez di lì a poco). Il romanzo “manca comunque di qualcosa che rende monco il libro pur pregevole”, decretò severo Vittorini. E poi: “Da quando scrivo mi sono sempre battuto per un rinnovamento radicale della letteratura. Lei capisce dunque che non posso impormi di amare scrittori entro gli schemi tradizionali. Il ‘Gattopardo’ avrei potuto amarlo solo come opera del passato che oggi fosse stata scoperta in qualche archivio”. Bocciatura anche un filo insolente, e purtroppo per lui Tomasi di Lampedusa, morto prima dell’uscita del libro, non ha neanche potuto assaporare il gusto della vendetta per tanto malanimo. Mario Baudino nel suo preziosissimo breviario dell’editore poco lungimirante aggiunge un particolare scabroso, una leggenda che si tramanda, ma senza far nomi: “Durante la riunione del mercoledì dell’Einaudi, che sancì il rifiuto, vennero pronunciate frasi lapidarie. La più significativa attribuita a uno degli intellettuali di spicco della casa editrice, suona così: ‘si può anche fare, ma non sarà una bomba’”. E bomba fu (e anche un bellissimo film di Visconti).
Susanna Tamaro non è stata la sola a patire le chiusure del mondo editoriale italiano. Quando gli proposero un romanzo di Milan Kundera, l’editore Garzanti liquidò la pratica con una battuta memorabile: “Non voglio dei minori, e per giunta cecoslovacchi”. A Salvatore Satta il destino ha riservato lo stesso trattamento di Morselli e Tomasi di Lampedusa: non essere pubblicato in vita. Il suo “De profundis”, nel 1946 per dire il clima dell’epoca, venne bocciato perché l’autore non aveva partecipato attivamente alla guerra di liberazione e il comitato dell’Einaudi emise sentenza negativa per un uomo “assente, che fa la scelta della contemplazione e non della partecipazione al reale”. Poi nel 1979, Adelphi pubblicò “Il giorno del giudizio” di Satta (prima diffuso da una piccola casa editrice di Padova) e il mondo culturale si accorse del granchio che aveva preso. Come quello, gigantesco, che riguardò “Il Padrino” di Mario Puzo. Racconta Baudino che dapprima “quasi tutti gli editori italiani lo rifiutarono con motivazioni più o meno simili: la crudezza, la grossolanità, la violenza”. Alla fine diede una lettura positiva Dall’Oglio. Francis Ford Coppola lo lesse con ingordigia e ne venne fuori uno dei film più celebri della storia del cinema.
La Rizzoli usò soltanto due parole per non volere aver niente a che fare con “Paura di volare” di Erica Jong: “una schifezza”. Poi arrivò Bompiani e prese i diritti dorati della “schifezza”, e arrivarono anche le denunce e le richieste di censura da parte di magistrati bigotti che deploravano il cattivo esempio del “sesso ad alta quota”, come si disse allora con formula corriva arrivata ai nostri giorni. Tempi in cui l’ideologia (che si esibì anche nel caso dell’ostilità verso Susanna Tamaro) rifiutava interi blocchi culturali perché non conformi all’assetto politico-culturale mainstream. Sul rifiuto einaudiano di pubblicare le opere complete di Friedrich Nietzsche per la cura di due studiosi prestigiosi come Giorgio Colli e Mazzino Montinari nacque la casa editrice Adelphi. Era stato lo storico Delio Cantimori a decretare che gli scritti di Nietzsche non potessero essere ospitati nello stesso scaffale di Antonio Gramsci e di Gaetano Salvemini (anche se c’è una lettera di Cantimori che ridimensionerebbe il suo solenne no). Del resto Delio Cantimori non era nuovo a giudizi molto secchi, fino a motivare così la bocciatura di un classico della storiografia come “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” di Fernand Braudel: “È un Via col vento della storiografia” (anche la Tamaro venne accusata di sentimentalismo alla Liala, peraltro).
Ma la censura editoriale non è stata solo una specialità italiana. George Orwell si vide rifiutare da T. S. Eliot per la Faber&Faber la celeberrima “Fattoria degli animali”, perché prendeva in giro la nomenklatura sovietica nel cuore della Seconda guerra mondiale: “Non ho alcuna convinzione che questo fosse il giusto punto di vista da cui criticare l’attuale situazione politica”. Colmo dell’ipocrisia. E della mancanza di lungimiranza. Tra libri e riduzioni disneyane “La fattoria degli animali” segnerà un successo di dimensioni colossali. Un po’ più di Susanna Tamaro, ma non tanto di più. “Dolenti declinare”, si dice in gergo. Sì, molto dolenti, poi.