Arte
Una mostra alla Galleria Borghese affianca Velasquez al maestro Caravaggio
Al museo di Villa Borghese un'esposizione mette in relazione la pittura spagnola e quella italiana. La chiave di volta è il dipinto "Donna in cucina con Cena in Emmaus"
“Il mio lavoro consiste nell’imbevermi delle cose. E dopo, tutto questo rifluisce fuori. Io sono fatto di tutto ciò che ho visto”. Così si sarebbe espresso Henri Matisse commentando la cappella da lui ideata e decorata a Vence in Provenza. Vedere, studiare, assimilare e rubare, secondo la nota frase di Picasso (“I bravi artisti copiano, i geni rubano”), questi i pochi ed essenziali moniti per i grandi artisti. Diego Velázquez rientra certamente nel novero dei grandi, o ancora meglio nel piccolo pantheon dei geni, incarnando la figura del pittore per antonomasia, il pittore ufficiale di corte e quello della realtà, il ritrattista e il teorico della pittura, tra i pochi capaci di parlare del medium della pittura e del suo statuto non con trattati scritti ma tramite la sua stessa pittura, come Hitchcock ha fatto col cinema. E Velázquez è stato certamente un ladro come Picasso, avendo rubato con lo sguardo almeno un secolo e mezzo di pittura italiana. Durante i due lunghi soggiorni in Italia, il primo nel 1629 e il secondo nel 1649, il pittore andaluso si nutrì della grande arte del Cinquecento e del Seicento. È probabile però che una qualche eco della pittura italiana fosse giunta a Diego già nella moresca Siviglia, tramite copie, stampe o visioni di seconda mano. Comunque sia andata, è fin troppo evidente che le prime opere di Velázquez sono squisitamente caravaggesche.
È quindi un’occasione rara e preziosa quella che si presenta ora alla Galleria Borghese, dove una delle primissime opere del genio spagnolo è posta vicino ad alcune opere del genio lombardo. Un incontro che avviene sotto gli auspici ebbri di sileniche figure danzanti, nell’ottava sala dello scrigno di Scipione Borghese, la Sala del Sileno (il che avrebbe divertito certamente i due artisti che ritrassero Bacco in diverse vesti). Il quadro di Velázquez, la “Donna in cucina con Cena in Emmaus”, proveniente dalla National Gallery of Ireland di Dublino, rientra nel genere dei bodegón, un filone di pittura tipicamente spagnolo che ritraeva persone delle condizioni sociali più povere. Che si trattasse di giovani e anziane serve in cucina o di allegri beoni in luride locande, l’attenzione principale in questo tipo di produzione era sempre dedicata ai cibi e agli oggetti, umilissimi come un uovo, una cipolla e una pentola, ma toccati da grazia divina che si manifesta nella luce. Ed è esattamente quello che accade nel dipinto in prestito presso la Galleria Borghese, dove una giovane domestica ha appena terminato di pulire una cucina, lasciando sul tavolo ad asciugare le brocche e le pentole, animate quanto l’unico misero organismo vivente sulla tavola, la piccola testa d’aglio accanto al mortaio lucente. La giovane è trasognata, sembra aver percepito quello che accade oltre la finestra passavivande, dove un’altra tavola è abitata da figurine fumide che sembrano già di Magnasco, nelle quali riconosciamo l’episodio evangelico della Cena in Emmaus. Quest’opera è stata messa in relazione a un passo della mistica Teresa d’Avila, che avrebbe detto alle sorelle monache: “Figlie mie non sconfortatevi se l’obbedienza vi porta a occuparvi di cose esteriori, sappiate che anche in cucina si trova il Signore, e tra le pentole vi aiuta nelle cose interiori e in quelle esteriori”. Dunque non c’è nulla di inerte in questo e negli altri bodegónes di Velázquez, così come non c’è inerzia nelle nature morte di Caravaggio.
Il “Fanciullo con canestra di frutta” e il “Bacchino malato”, entrambe tra le prime opere note del Merisi e in collezione Borghese già dal primo Seicento, parlano quindi la stessa lingua del dipinto in mostra, instaurando un dialogo di grande intimità e suggestione. Da una parte i due fanciulli romani procaci e dall’altra la giovane domestica timorosa, tutti e tre sembrano offrirci delle nature morte che assumono significati spirituali. Nei frutti maturi e in quelli che iniziano ad appassire, nella foglia riarsa come in quella verde, si possono leggere significati allegorici e morali, legati alla fugacità della bellezza ma anche possibili riferimenti allo Sposo del Cantico dei Cantici e al Cristo come Amore in atto di mostrare i frutti del peccato e quelli della redenzione. Come gli esordi di Caravaggio, anche quelli del giovane spagnolo furono dei più promettenti, “poi la Corte appesantì le ali di Velázquez obbligandolo a quegli interminabili ritratti di principi degenerati”, ha scritto Guido Ceronetti. Ma per fortuna, o per Grazia, scrive ancora “il filosofo ignoto”: “Tre volte il destino intervenne a spiegargliele, per volo nell’Alto: Breda, Meninas, Hilanderas”.
Fino al 23 giugno, chi verrà alla Galleria Borghese avrà il privilegio di capire qualcosa in più. Capirà la portata rivoluzionaria della pittura di Caravaggio e potrà comprendere più profondamente le infinite contaminazioni e le scintille di pensiero emanate dalle opere d’arte nel tempo. Nessuno ha inventato nulla, anche i più grandi sono imbevuti delle vite e delle tracce di chi li ha preceduti. Siamo nani sulle spalle di giganti.