La forza dell'astratto
A Roma una retrospettiva di Carla Accardi, protagonista dell'arte del dopoguerra
Al Palazzo delle Esposizioni fino al 9 giugno sarà aperta al pubblico la magnifica retrospettiva sulla pittrice, curata da Daniela Lanciani e Paola Bonanni, per il centenario della sua nascita
"La sublime suora dell’arte / convoglia l’invisibile / sulle tele innalzate / e con gesti graduati / e non meno eloquenti / di quelli dei profeti / ritrae spazi essenziali / dello spettro cromatico; / anime del colore-energia / bandiere della creazione. / La sua mira d’arciere / le fissa sulle superfici, / linee ondivaghe, cerebrali; / armonie dell’astrazione. / Le trasparenze svelano / e l’artista le illumina, / e talvolta le oscura / per renderle invisibili / al senso profano del realismo".
Ci voleva un poeta amico delle donne come Valentino Zeichen, rabdomante sensibile ai tesori dell’arte, per descrivere l’essenza dell’opera di Carla Accardi (1924-2014), una delle protagoniste dell’arte del dopoguerra che per settant’anni seppe innovare e trasformare il linguaggio dell’astrattismo contemporaneo, con un segno originale destinato a resistere al tempo.
Lo dimostra la magnifica retrospettiva a cura di Daniela Lanciani e Paola Bonanni, aperta a Roma al Palazzo delle Esposizioni fino al 9 giugno e fortemente voluta dal presidente Marco Delogu nel centenario della nascita della pittrice. Esposte in sette sale sontuose, circa cento opere provenienti dall’Archivio Accardi Sanfilippo, dai grandi musei nazionali e internazionali e da una serie di collezionisti privati, permettono di ripercorrere la straordinaria avventura di questa ragazza della buona borghesia trapanese, che nulla destinava alla ribalta dell’arte.
A poco più di vent’anni, Carla Accardi, volto minuto, sorriso smagliante, volontà di acciaio, lascia la Sicilia per studiare a Firenze. Da lì si trasferisce a Roma, entra in contatto con Gino Severini e un gruppo di giovani artisti che orbitano nello studio di Renato Guttuso (Ugo Attardi, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, che diventerà suo marito, e Giulio Turcato). All’inizio del 1947, unica donna del gruppo, insieme a loro dà vita a “Forma I, Mensile di arti Figurative”, lanciando alla maniera dei futuristi un Manifesto per l’arte nuova: “Noi ci proclamiamo formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano inconciliabili”.
Ed è una vera sorpresa scoprire, nella prima sala della mostra, un tratto singolare sin dagli esordi, con l’autoritratto sul modello di quello di Raffaello, e la Natura morta dai volumi cubisti, e la Vista su un campo da tennis, esposto qui per la prima volta, col contrasto violento tra il rosso della terra battuta, il verde degli alberi, il blu notte del cielo. Subentra poi l’abbandono del figurativo con la pretesa però di associare alla pittura la funzione decorativa, ma in chiave rivoluzionaria. Urge infatti valorizzare “l’oggettiva esistenza delle cose” e migliorare la vita, anche se il riferimento alla realtà poi si dilegua nel caleidoscopio di schegge multicolori e di forme chiuse che si espandono e si ritraggono, “… un magma plastico che viaggia sempre sul bordo del mutamento”, per riprendere le parole di Achille Bonito Oliva. Del resto è la stessa Accardi a riconoscere come orizzonte di senso della sua opera il continuo mutare delle cose, coi loro contrasti, le loro miserie, le gioie e i conflitti.
“Il mio scopo è di rappresentare l’impulso vitale che è nel mondo”, confessa all’americano Hereward Lester Cooke, curatore della mostra romana del 1955, e a Carla Lonzi, la critica radicale e femminista con cui condivide una militanza sofferta. La pittura dell’Accardi, come quella spazialista, mira a esprimere le forze elementari del mondo attraverso una sorta di linguaggio simbolico dei segni. E’ così che a trent’anni supera un periodo di crisi, rinunciando al cavalletto, e inizia a sperimentare la pittura in bianco e nero, mettendosi a tracciare con la vernice segni grafici su una tela stesa per terra. Nascono cosi l’Arciere su bianco, il Labirinto, l’Assedio, lavori iconici che le valgono la fama internazionale grazie a Michel Tapié e Pierre Restany (presenti anch’essi coi loro scritti critici nella magnifica antologia che correda il catalogo stampato da Quodlibet).
Ma la sperimentazione non si ferma e il nuovo corso, segnato dall’esplosione del colore, investe i segni, i simboli e persino i materiali, come il “sicofil”, l’acetato trasparente venduto a rotoli con cui Carla Accardi dà corso all’esistenza oggettiva delle cose, rivelando il fondamento della condizione femminile. Ecco la Tenda, esposta nel 1965 a Torino e ora proprietà del Musée Georges Pompidou, la Triplice tenda, esposta nel 1971 a Roma, e i fogli sovrapposti dipinti invertendo i colori, che segnano l’abbandono del quadro e la smaterializzazione del dipinto, per fare coincidere l’opera con uno spazio abitabile, a misura d’uomo. “Una cosina che stava lì dritta dritta” dirà Carla Lonzi. “Una cosa ovvia, nata da un’idea semplice” dirà l’Accardi, con l’aplomb dell’artista affermata che resta umile e della trapanese che non si prende sul serio. Una bella lezione di libertà, memorabile non solo per l’arte contemporanea.