Povere streghe. La persecuzione più sanguinosa di cui sono state vittime le donne, in mostra a Bologna
Dalle sofferte privazioni al desiderio di volare. “Stregherie” a Palazzo Pallavicini, curata da Luca Scarlini. Mitologia e persecuzioni delle ventimila e più che furono bruciate fra ’500 e ’600
Per la parola “strega” il vocabolario riporta questa definizione: “Creatura femminile che la superstizione immagina fornita di poteri soprannaturali a opera del demonio”. Anche semplicemente: “Donna cattiva, spesso brutta e vecchia, megera”, comunque esperta in magia nera e sortilegi vari, con capacità d’influenzare malignamente gli altri, e in particolare le altre. Perché caratteristica della strega tradizionale è l’invidia e la gelosia per quelle più belle o più giovani di lei. Le fiabe insegnano. La matrigna di Biancaneve non sopporta che la giovane figlia del marito sia, secondo il suo specchio magico, “la più bella del reame”. E, siccome è appunto una matrigna e basta il suono della parola a denunciarla come cattiva e quindi strega, vuole vedere morta la figliastra. Vale lo stesso per Malefica (nome cinematografico: nella fiaba La bella addormentata nel bosco dei fratelli Grimm restava anonima). Non l’avevano invitata alla festa per la nascita della figlia del re, perciò offesissima scaglia i suoi anatemi contro la neonata Aurora, colpevole – Malefica lo sa perché è preveggente – di diventare un giorno una ragazza bellissima, cui però toccherà dormire per cento anni. Ma questo del lungo sonno è il palliativo escogitato da una fata buona per evitarle la morte, perché dove c’è una strega, c’è quasi sempre anche una fata a ricordarci la doppiezza della natura umana. Vedi Cenerentola dove la fata è principio di bene e giustizia e la cattiveria viene incarnata in due sorelle perfide e gelose e nella solita matrigna, che il male lo fanno senza aver nemmeno bisogno di ricorrere a pozioni e arti magiche. Come Crudelia Demon che la perfidia l’ha già nel nome e per vanità vorrebbe sterminare una nidiata di cagnolini pur di farsene pelliccia nella Carica dei 101. E così avanti, dalla Strega del Mare nella povera Sirenetta alla comica Maga Magò disneyana, il catalogo è lungo e comunque misogino. Perché c’è poco da ribaltare il tavolo e riappropriarsi positivamente della parte stregonesca di sé come fecero le femministe, certi pregiudizi sono duri a morire.
“Tremate, tremate, le streghe son tornate”, si scandiva nelle manifestazioni a partire da quell’8 marzo del 1972 in cui lo gridava anche Jane Fonda piovuta a Roma in jeans e maglietta, con un taglio di capelli a caschetto che liquidava i boccoli e i vestiti sexy di Barbarella, il film di Roger Vadim che intendeva lanciarla come una nuova Brigitte Bardot. Lo scenario era Campo de’ Fiori, dove la statua di Giordano Bruno ricordava tanti altri roghi. E risuonava pure lo slogan, accompagnato da indici e pollici delle due mani unite a rombo per riprodurre ideali vagine finalmente libere dai tabù repressivi: “Siamo le discendenti delle streghe che non siete riusciti a bruciare”. Perché, fiabe a parte, radicato maschilismo da contestare e libertà da rivendicare, la vicenda delle streghe è nei secoli la storia più sanguinosa di cui sono state protagoniste e vittime le donne.
Per questo il colore dominante nelle dieci stanze di Palazzo Pallavicini, a Bologna, dove è allestita la mostra Stregherie (aperta fino al 16 giugno), è il nero. Un nero atraversato da accensioni rosse: il nero del buio intellettuale che ha avvolto la persecuzione delle streghe e il rosso del loro sangue. Il tutto accompagnato da un sottofondo musicale inquietante, fitto di rumori disarticolati, urla e altri suoni tempestosi, che ci saremmo sinceramente risparmiati. “Iconografie, fatti e scandali delle sovversive della storia” è il sottotitolo dell’esposizione, ideata da Vertigo Syndrome e curata da Luca Scarlini, autore anche del ricco catalogo, edito da Skira, che approfondisce mitologia, capricci, persecuzioni delle ventimila e più che furono bruciate in Europa fra Cinquecento e Seicento “dopo processi farsa”, senza contare linciaggi, uccisioni, punizioni violente e incontrollate che non venivano perseguite dalla giustizia, quasi fosse legittimo vendicarsi su una guaritrice che non era riuscita a guarire o su una fattucchiera il cui filtro d’amore non aveva raggiunto l’effetto desiderato. In Italia, questo davvero sembra incredibile, l’ultimo caso accertato di una donna massacrata perché ritenuta una strega risale al 1828, solo un anno prima che in India fosse finalmente messo fuori legge il barbaro rito del sati, quello per cui le vedove dovessero essere gettate vive nella pira dei mariti defunti. Non perché streghe, è chiaro. Eppure in termini di inconscio collettivo qualche relazione esiste fra queste diverse morti per fuoco. Cos’è infatti una donna nella mentalità patriarcale, se non proprietà del marito? E lasciare in vita una vedova la espone al rischio di darsi ad altri uomini, soprattutto al rischio di essere libera, ovvero una strega.
“Le signore della notte erano portatrici di una civiltà complessa, che si opponeva a quella della Chiesa e della società guidata da un potere maschile”
E a proposito di guaritrici, erbe e filtri, non facevano soprattutto questo le streghe? Curavano con le erbe, leggevano il futuro, preparavano pozioni. Soprattutto sceglievano una vita diversa da quella famigliare, magari preferivano non sposarsi, vivere da sole e appartate, essere libere insomma. E che di tanto in tanto inforcassero una scopa e se ne volassero spedite verso un sabba, è solo leggenda. La verità, scrive Scarlini, citando un libro pionieristico del 1964 come Civiltà delle streghe di Giuseppina ed Eugenio Battisti, è che “le signore della notte erano portatrici di una civiltà complessa, che si opponeva a quella della Chiesa e della società guidata da un potere maschile”. Una civiltà che in epoca antica e per tutto il Medioevo era stata accettata e riconosciuta, mentre “fra Cinquecento e Seicento è stata fissata l’iconografia della strega come noi la conosciamo oggi, una figura spesso ributtante di vecchia megera che tiene del mostro e dell’animale, il cui potere magico è però incontestabile. Il mondo della Controriforma trovò in loro il bersaglio preferito di un attacco sessuofobo, misogino, che si basava sul furibondo Martello delle streghe” pubblicato nel 1487 dai teologi Heinrich Kramer e Jacob Sprenger (poi Grandi Inquisitori), libro che divenne la più temibile arma contro le donne desiderose di accedere alla cultura e diventare sapienti.
Tantissimi i riferimenti cinematografici ricordati in Stregherie da una serie di locandine, che vanno da Rosemary’s Baby di Roman Polanski a Suspiria e Inferno di Dario Argento a La strega di André Michel a molti altri. Manca, sorprendentemente, quel capolavoro di leggerezza e divertimento qual è Ho sposato una strega di René Clair, con un’indimenticabile Veronica Lake appena ventenne in versione comica e non ancora preda di alcolismo e turbe psichiche che la facevano considerare nel suo ambiente una vera whitch/bitch (leggi: stronza, troia, rognosa, cagna, strega…). La storia risale niente meno che al 1692 quando i due protagonisti, lo stregone Daniele (un irresistibile Cecil Kellaway) e sua figlia Irene vengono arsi vivi durante la caccia alle streghe nella tristemente celebre città di Salem in Massachusetts, ma poi passano i secoli ed eccoli reincarnati negli anni 40 per dar vita a una storia piena di brio in cui la strega Irene, dopo aver giurato al padre a proposito di un malcapitato innamorato (Fredric March): “Lo tratterò come uno schiavo e lo farò tanto tanto soffrire”, beve l’intruglio d’amore a lui destinato e la situazione si capovolge.
I pittori esposti alla mostra che ritraggono streghe, da Dürer a Salvator Rosa, animano un catalogo di mostruosità fisiche e scatenamento erotico. E persino in epoca moderna The Witch di Andy Warhol, del 1981, rappresenta il ghigno mostruoso di una femmina anziana dalla bocca spalancata che ride sgangheratamente sotto un cappello nero a punta. Bisogna rivolgersi a uno sguardo femminile, come quello di Leonor Fini o di Leonora Carrington, per avere un’illustrazione poetica e simpatizzante della strega. Una delle pitture più interessanti della mostra è proprio una litografia di Leonor Fini degli anni 80 dal titolo La strega a cavallo della scopa che trasforma lo stereotipo della vecchia Befana in una visione elegante e danzante di donna che sembra divertirsi, con un gatto perplesso in testa, mentre gioca con la propria coda di saggina.
Il tema della scopa volante è fra i più misteriosi nell’iconografia stregonesca. Secondo l’antropologia è conseguenza di un rito pagano antico
Il tema della scopa volante è fra i più misteriosi nell’iconografia stregonesca. Non esiste una spiegazione accertata. Alla mostra di Palazzo Pallavicini ne compaiono parecchie di scope, oltre a quella nel quadro di Leonor Fini. Persino sulla copertina di un Dylan Dog, dal titolo L’uccisore di streghe, si vede una stregaccia con lunghi capelli bianchi al vento e il naso a uncino mentre svolazza su Parigi e terrorizza il protagonista vestito immancabilmente in jeans e camicia rossa, sotto la giacca nera. Le scene di sabba sono inevitabilmente cosparse di scope, volanti o ridotte a bastoni di sostegno o utilizzate per mescolare pozioni in grandi calderoni. In una litografia a colori di Jean Veber del 1910 due streghe nude e spensierate (forse persino lesbiche), una dai capelli rossi e una dai capelli neri, la inforcano al contrario, con la parte in saggina avanti anziché dietro, tanto è il contatto del legno con le parti intime quel che conta e sembra rallegrarle. E questo qualche indicazione interpretativa potrebbe darcela. C’è infatti pure la serie di acqueforti ottocentesche Sorcières di Joseph Apoux dove una bella e giovane strega bruna spazza il pavimento e cavalca tutta felice la sua scopa giocandoci poi in vari modi, soprattutto passandosela ispirata fra le cosce, strette o languidamente aperte. Ma la raffigurazione della strega giovane e bella arriva in epoca ottocentesca. In genere, pur in grado di trasformarsi come vuole, la strega della leggenda è vecchia, coi seni penduli, la pelle raggrinzita, il naso lungo e adunco, vestita di scuro, con la capigliatura scarmigliata e bianca. E’ facile supporre che, fra i tanti lazzi e scherni maschili e maschilisti a lei rivolti, ci fosse il retropensiero di una donna brutta e laida, la megera appunto, in grado di procurarsi piacere sessuale nel segreto del sabba e dei suoi altri riti satanici solo strofinandosi contro le parti intime il manico di una scopa o magari infilarlo dentro vagine slabbrate e flaccide. Non è del resto anche il cappello che indossa, come un monito, sempre cascante e floscio? Se poi vogliamo approfondire, una qualche spiegazione più scientifica per la scopa possiamo trovarla. Secondo l’antropologia è conseguenza di un rito pagano antico, un rito contadino di maschi e di femmine per incoraggiare la fertilità (dei campi come del ventre femminile), rito che prevedeva salti e balli sotto la luna a cavallo di tutto il possibile: scope, bastoni, pali, rami e chi più ne ha più ne metta. Che poi, fra uno zompo e l’altro, tutto finisse in orgia, gli antropologi non possono escluderlo.
Ancor più esplicita traccia, di quest’uso erotico delle scope, resta un processo che risale addirittura al 1324 contro una ricca vedova irlandese, tal Alice Kyteler. Gli investigatori riferirono che durante la perquisizione della sua casa, avevano trovato un bastone unto con dell’unguento e su questo bastone la donna sarebbe stata incline a galoppare per casa. Ma bisogna aspettare almeno un secolo perché comincino a circolare le immagini di streghe che a cavallo di scope, unte o meno, s’innalzano in volo. Alla mostra di Bologna, a scanso di equivoci, non mancano calici e contenitori di foggia varia che potevano effettivamente custodire unguenti…
Bisogna aspettare il 1862 perché uno straordinario, affascinante libro dello storico francese Jean Michelet venga a riabilitare La strega in un’aura di inevitabile scandalo: “L’uomo caccia e lotta. La donna fantastica e sogna; è la madre della fantasia e degli dei. In certi giorni è veggente; possiede le ali illimitate del desiderio e del sogno. Per capire osserva il cielo, ma non offre di meno il suo cuore alla terra”. Dove le certezze, tutte maschili, producono una rigida visione del mondo, la fluidità femminile, che Michelet riconosce e ama, è più vicina all’eterno evolvere del cosmo, ai ritmi della natura, a una qualche verità dell’essere. Ed è stato un uomo, l’americano Nathaniel Hawthorne, in un romanzo fra i più belli mai scritti, La lettera scarlatta, a disegnare il ritratto di un personaggio femminile, Hester Prynne, che nella puritana Inghilterra del Seicento saprà riscattare la colpa di adultera con un’inedita consapevolezza di forza e libertà femminile, predicando la “verità nuova”, capace di cambiare “i rapporti tra l’uomo e la donna su basi più sicure di reciproca felicità”. Hawthorne era nato a Salem, la città evocata dal film di René Clair. Nell’introduzione alla Lettera scarlatta rivelò con vergogna e raccapriccio di contare nella propria famiglia un avo che “si era distinto nel martirio delle streghe” e che, per la sua crudeltà, voleva la leggenda conservasse sulla pelle la macchia indelebile del loro sangue.
Volare a cavallo di un oggetto: Calvino, nelle “Lezioni americane”, mette in relazione l’infreddolito “cavaliere” di Kafka con le streghe
Meno cruenta l’immagine letteraria del volare cavalcando un oggetto che fa Franz Kafka nel racconto Il cavaliere del secchio, dove non ci sono streghe ma un poveretto rimasto senza carbone che fantastica di impietosire un carbonaio andando da lui a cavallo d’un secchio vuoto. Ed è Italo Calvino, nelle Lezioni americane, a mettere in relazione l’infreddolito personaggio di Kafka con le streghe che “nei villaggi dove la donna sopportava il peso più grave di una vita di costrizioni, volavano di notte sui manici delle scope e anche su veicoli più leggeri come spighe o fili di paglia” perché, spiega: “Credo sia una costante antropologica questo nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta”. Un’interpretazione delle motivazioni profonde del farsi strega davvero inedita e commovente. Tanto più che poi Calvino fa un vertiginoso parallelismo con lo scrivere: “E’ questo dispositivo antropologico che la letteratura perpetua”. Perché il bisogno di esprimersi in uno scrittore autentico nasce da una privazione, la privazione dovuta a essere soltanto un essere umano, mentre l’arte è la possibilità di salire su una scopa e librarsi in alto.