Un libro
Il disperato tentativo del popolo ebraico di trovare una ragione alla Shoah
La "catastrofe" che mette in dubbio la provvidenza divina, sconvolgendo i concetti tradizionali che la riguardano. Le reazioni, le teorie e l'umiltà di non voler trovare una spiegazione
Pubblichiamo un estratto di “Alla vita! Feste, incontri e saggezza di un rabbino dei nostri tempi”, il volume di Haim Fabrizio Cipriani da oggi in libreria per le Edizioni San Paolo (202 pp., 18 euro). L’autore è stato rabbino delle comunità Lev Chadash di Milano e Roma, poi di comunità ebraiche a Tolosa, Montpellier e Marsiglia. In Italia è fondatore e l’anima di Etz Haim, comunità di vita ebraica caratterizzata da una grande apertura umana e intellettuale.
Shoah è una parola ebraica che significa “catastrofe” e descrive quello che è altrimenti conosciuto come Olocausto: un massacro intenzionale e sistematico da parte dei nazisti, in collaborazione con altri governi europei, per cancellare gli ebrei dalla faccia della terra. Il folle progetto comprendeva una serie di sforzi sovrapposti da parte dei nazisti per distruggere gli ebrei: l’internamento nei campi di concentramento costruiti in tutta Europa (1933-1945); l’isolamento nei ghetti, in seguito “liquidati” (1939-1943); l’esecuzione di massa da parte delle Einsatzgruppen, o unità mobili di uccisione (1941-1945), e l’uccisione nei campi di sterminio (1942-1945).
Lungi dall’essere un fatto isolato, però, la Shoah è invece il prodotto dell’antisemitismo secolare che si era sviluppato in seno all’Europa. L’antisemitismo è un fenomeno la cui nascita è misteriosa, ma storicamente è appropriato ricordare che fu il Cristianesimo a sviluppare e nutrire questo fenomeno culturale, come ampiamente argomentato dallo storico Jules Isaac nel suo L’insegnamento del disprezzo (1962).
La celebrazione fu istituzionalizzata nel moderno Stato d’Israele nel 1951. In origine fu proposta la data del 15 Nissan, anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia (19 aprile 1943), giacché la giornata doveva essere anche ricordo dell’eroismo dei resistenti (gevurah significa eroismo) ma fu scartato perché coincideva con il primo giorno di Pèsach. Fu quindi scelta una data poco più in là, subito dopo la conclusione di Pèsach in modo da non impattare sulla gioia della festa ma rimanendo nello stesso mese.
Diversi tipi di ritualità si sono sviluppati per la giornata. Fra essi possiamo citare il digiuno, la lettura pubblica dei nomi delle vittime, e la lettura di testi appropriati. Più recentemente sono state realizzate delle Megillot haShoah, testi poetici che descrivono quanto accaduto destinati alla recitazione sinagogale in modo analogo a quanto viene fatto con altri testi biblici in occasione delle celebrazioni tradizionali, e delle Haggadot haShoah, testi da leggere durante un rito domestico in modo analogo alla Haggadà di Pèsach. Trattandosi di una celebrazione molto recente, l’aspetto rituale è del tutto esplorativo e sperimentale, e ogni comunità ha usi piuttosto diversi.
Cercare una giustificazione per la Shoah appare assurdo, ma l’ebraismo ha importanti precedenti per questo, pensiamo alla distruzione del Tempio e all’idea sviluppatasi nel Talmud delle sue ragioni: idolatria per il primo tempio, odio interno per il secondo. Come rinunciare quindi a trovare una qualche spiegazione per la Shoah negli atteggiamenti tradizionali?
Un rav ungherese che morì poi nei campi, Yissakhar Shlomo Taikhtel, scrisse un libro, Em ha banim semecha, nel quale esprime l’idea che la colpa è stata quella di non aderire pienamente al sionismo, e la Shoà ne sarebbe stata la punizione. Secondo il rabbi dei chassidim di Satmar Joel Teitelbaum, la Shoah invece sarebbe stata invece una punizione proprio per il sionismo.
Nel tentativo disperato di trovare lumi nelle fonti tradizionali, alcuni hanno addirittura evocato l’opinione di Rabbi Yom Tov Lipman Heller (XVII sec.), autore del commento alla Mishnà detto Tossafot Yom Tov, il quale aveva attribuito pogrom e altre catastrofi del 1648 e il 1649 alla cattiva condotta degli ebrei in sinagoga. Heller si basava sul parere talmudico di Rabbi Ishmael ben Elazar secondo cui uno dei peccati per i quali le persone muoiono è quello di comportarsi in sinagoga con leggerezza, trattandola come un luogo di socialità, piuttosto che per la preghiera e per altri scopi elevato.
Per altri (Chaim Ozer Grodzinski, Eliahu Dessler) la causa di cotanta punizione fu la Riforma, che nacque in Germania.
Nel 2000 il rabbino Ovadia Yossef disse che le vittime della Shoah erano la reincarnazione di anime che avevano peccato in vite precedenti.
Possiamo vedere chiaramente che queste spiegazioni sono profondamente insoddisfacenti, e teologicamente l’idea di una divinità che punisce il popolo per la cattiva condotta alla sinagoga, o per idee politiche, è difficilmente tollerabile.
La realtà è che la Shoah sconvolge i concetti tradizionali riguardanti la provvidenza divina. Si può pensare, con M. Buber, che semplicemente D-o operò “heester panim”, il nascondimento del volto, ma anche questo è molto problematico. Il momento scelto è per nascondere il volto è infatti pessimo, come un conduttore che si addormentasse proprio al momento di entrare in stazione.
Per fortuna alcuni maestri ebbero l’umiltà di non voler trovare una spiegazione, così fece il Rebbe di Lubavitch M.M. Schneerson che, rifiutando ogni tipo di teodicea, afferma che la Shoah non poteva essere considerata una punizione perché nessuna trasgressione potrebbe meritare tale castigo. Di conseguenza la ragione umana non poteva spiegare tali eventi, e solo la Trascendenza stessa avrebbe potuto risponderne.
Fra le numerose reazioni e teorie espresse da diversi pensatori di rilievo, personalmente eccone alcune che trovo notevolmente interessanti: il rabbino Emil Fackenheim ritiene la Shoah una forma di Rivelazione, nel senso di una chiamata all’affermazione ebraica per la sopravvivenza. Fackenheim sostiene che la Shoah ci rivela un nuovo comandamento biblico: “Ci viene proibito di concedere a Hitler vittorie postume”. Ritiene che rifiutare la spiritualità a causa dell’olocausto sarebbe come arrendersi a Hitler.
Il filosofo Hans Jonas si chiede addirittura se haShem aveva la facoltà di fermare i nazisti. Forse se avesse potuto lo avrebbe fatto. Nella stessa scia va il rabbino Reform Harold Kushner, che nega l’onnipotenza divina. In forme diverse, l’idea di una non totale onnipotenza divina era già stata espressa anche da pensatori classici come Abraham ibn Ezra e Levi ben Gershon.
Il rabbino Eliezer Berkovits sostiene che se haShem si rivelasse nella storia e bloccasse la mano dei tiranni, il libero arbitrio dell’uomo sarebbe reso inesistente. Eventi terribili come la Shoah sono il prezzo che dobbiamo pagare per avere il libero arbitrio. In questa prospettiva, la Trascendenza non può né vuole interferire con la storia, altrimenti il nostro libero arbitrio effettivamente cesserebbe di esistere.
Il rabbino Irving Greenberg, sostiene che a questo punto l’alleanza tra haShem e il popolo ebraico è effettivamente rotta e inapplicabile, spezzata unilateralmente. In questa prospettiva, haShem non ha più l’autorità morale di comandare alla gente di seguire la sua volontà. Il popolo ebraico dovrebbe quindi accettare la legge ebraica solo su base volontaria. Le sue opinioni su questo tema lo resero oggetto di molte critiche all’interno della comunità ortodossa.
Vi è un cliché diffuso, quello secondo cui la reazione più classica da parte degli ebrei sia stata di perdere la fede. Non è stato sempre vero. Elie Wiesel ha detto “dopo l’Olocausto non ho perso la fede in D-o, ma ho perso la fede nell’umanità”. La vera domanda non è tanto dove fosse D-o, ma dove fosse l’uomo.
Se una costruzione filosofica coerente per spiegare la Shoah è impossibile, un’idea importante che si è fatta strada, è quella che dobbiamo rivedere completamente la visione della Trascendenza. Sembrerebbe che il D-o paterno e amorevole sia un’idea ingenua, che non dobbiamo considerare come riferimento. Rivedere e ricreare un’immagine del Divino è quindi il dovere d’Israele dopo quanto avvenuto. Non è un processo nuovo, pensiamo alle seconde tavole della Torà che nel racconto biblico sostituiscono le prime, rotte da Moshè alla sua discesa dal Sinai. Si tratta di un cambio di paradigma fondamentale. Nachman di Brezlav diceva che “nulla è più pieno di un cuore rotto”, quindi forse anche una fede rotta e un’alleanza rotta possono creare una pienezza perfino maggiore.