Foto dal sito del teatro dell'Opera di Roma

La recensione

Regia da incubo, canto da sogno: La sonnambula all'Opera di Roma

Alberto Mattioli

Il debutto della favolosa Lisette Oropesa martedì sera non è stato rovinato nemmeno da uno spettacolo che pone una seria candidatura all’Oscar per la peggior regia della stagione teatrale

Le donne salveranno forse il mondo; le primedonne, sicuramente, l’opera. E infatti il debutto della favolosa Lisette Oropesa nella Sonnambula di Bellini, martedì all’Opera di Roma, non è stato rovinato nemmeno da uno spettacolo che pone una seria candidatura all’Oscar per la peggior regia della stagione. Certo, La sonnambula è difficile da mettere in scena: succede poco, e quel pochissimo che succede è altamente improbabile. Nella Svizzera di Heidi, Amina dormendo finisce nella camera del signore del villaggio scatenando la gelosia del fidanzato Elvino, fino all’happy end quando lei, sempre sognando, rischia di cadere nel mulino ma sopravvive e allora lui, particolarmente scemo anche per essere un tenore, finalmente capisce: ah, era sonnambula davvero. Insomma, è come se la premiata ditta Romani & Bellini versasse in un melodramma larmoyant tardo settecentesco l’additivo della passione tutta romantica per le sonnambule, le disturbate, le folli, le maniache, insomma quel tipo di donna che non vorremmo mai trovarci accanto all’altare, ma che adoriamo vedere maltrattato dalla sorte in palcoscenico. Quello di Bellini è un teatro molto particolare, anzi unico, radicalmente diverso da quello modello Donizetti-Verdi che imboccherà poi l’opera italiana. Ma il fatto che la sua sia una drammaturgia così peculiare non significa che drammaturgia non ci sia: l’ha spiegato benissimo, di recente, Fabrizio Della Seta nel suo saggio su Vincenzo nostro.
 

Avrebbero dovuto leggerlo Jean-Philippe Clarac e Olivier Deloeuil alias “Le Lab”, coppia di registi francesi finora sconosciuta in Italia; d’ora in avanti, se li conosci li eviti. Il loro spettacolo è un confuso pasticcio dove un alter ego filmico di Amina si addormenta e sogna quel che succede al matrimonio, che si svolge nella galleria d’arte “Elvezia”: i “numeri” melodrammatici più tipici sono altrettante performance. Purtroppo non si può mettere in scena un’opera sfottendola: bisogna crederci, o almeno fare finta. Qui invece ci si fa beffe degli svizzeri in Lederhosen, e quando Amina sonnambula entra con due cuscini attaccati dietro il collo sono stato vittima (non solo io, per la verità) di un attacco di fou rire, per cui non saprei dire com’è stato il relativo duetto con il conte Rodolfo. Far ridere a teatro va benissimo, ma solo se lo si fa apposta. Quanto poi ai grulli nostrani, si ripete per l’ennesima volta che le regie non si dividono in “moderne” e “tradizionali”, ma in belle e brutte. Questa però va oltre il brutto, e approda all’orrendo.
 

Peccato doppio perché l’occhio soffre ma l’orecchio gode. Lisette vale tant’oro quanto Oropesa: leggermente contratta nella cavatina (e i picchiettati del daccapo della cabaletta sono stilisticamente dubbi, così liberty…), realizza poi un crescendo vocale e interpretativo che culmina in un “Ah, non credea mirarti” da antologia. La voce è estesa, morbida, non enorme ma sempre piena; l’italiano, perfetto; il trillo, l’ottava meraviglia del mondo; l’interprete, intensa e anche saggia nella sua voluta semplicità, in un personaggio su cui volteggia ancora e sempre il fantasma della Maria. Bravo anche John Osborn, benché paradossalmente oggi quella di Elvino sia una parte troppo leggera per lui; bravissimo Roberto Tagliavini, un violoncello umano cui negli anni sono cresciuti volume e personalità. Quanto al direttore, sembra assurdo ma non lo è, per lui Sonnambula è molto più pericolosa, poniamo, di Elektra. Francesco Lanzillotta dimostra tre cose: che è un grande direttore; che i grandi direttori servono anche in Bellini; e che i grandi direttori non fingono che Bellini sia Wagner ma fanno capire benissimo perché Wagner lo amasse.
 

Trionfo per la parte musicale e tonfo per quella scenica, con fischi e improperi. Cosa volete, noi siamo gente semplice, che ancora si commuove quanto una ragazza bravissima di New Orleans canta una di quelle melodie belliniane “lunghe, lunghe, lunghe” (il copyright è di Verdi) che si avvitano ipnotiche su loro stesse, facendoci davvero credere che l’Infinito esista. A occhi chiusi, però.

Di più su questi argomenti: