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Le pazze statue che invadono piazze e giardini d'Italia
Diti medi, damigellone, animali: c'è di tutto tra i manufatti artistici che compaiono nelle città con l'obiettivo di catturare i nostri sguardi distratti. Una fiera del dubbio gusto
Aridatece i nani da giardino! L’invocazione si leva da luoghi pubblici e privati invasi da manufatti artistici con cui assessori, curatori, investitori, comunicatori e portatori di messaggi si preoccupano di arredare l’esistente. Ossia piazze, giardini, parchi e castelli. L’obiettivo è catturare i nostri sguardi di flâneur distratti – distratti perlopiù dagli schermi dei telefoni –, e allora la trovata è quella di creare una nuova statuaria che ci veda coinvolti insieme ai nostri inseparabili telefoni. Ovvero, l’occasione da selfie strano.
Ecco allora spuntare a Venezia, addirittura in piazza San Marco lungo la fiancata di Palazzo Ducale, luogo già pieno di meraviglie bastanti a sé stesse, un’infilata di dodici damigellone dell’artista spagnolo Manolo Valdés. Estrapolate dal più celebre dei dipinti di Velázquez, “Las Meninas”, rese cupe dalla dimensione caricaturale e dalla fusione bronzea, hanno scandalizzato molti critici d’arte e reso felici i commercianti veneziani. I turisti, anziché mettersi in coda per visitare Palazzo Ducale e la Basilica, sottraendo tempo allo shopping e alla consumazione dei pasti, si accalcano intorno ai manufatti artistici fotografandosi nelle pose più divertenti, da taggare e caricare sui social. Esaurite così le velleità di accrescimento culturale, sono liberi di buttarsi a dilapidare di calle in calle. Tra le critiche più vibranti, quelle di Francesco Bonami, che già deprecò gli immani testoni femminili del Valdés, esposti davanti al candore della Collegiata di San Martino nella piazza principale di Pietrasanta: “Vien da maledire Michelangelo che lì in zona trovò il suo blocco di marmo per scolpire il David e da allora questo è diventato l’alibi per pessimi artisti provenienti da tutto il mondo per stabilirsi in zona e produrre impensabili e inguardabili ciofeche. Ma non è un alibi per chi gli dà il permesso di compiere arti oscene in luogo pubblico”.
D’altro canto, sempre di questi giorni è la polemica sulla statua che rappresenta una donna mentre allatta, offerta al comune di Milano dai familiari di Vera Omodeo, scultrice defunta lo scorso anno, quasi centenaria. Una “Commissione esperti in materia di opere d’arte per la valutazione delle proposte di collocazione di manufatti artistici negli spazi pubblici” (e qui siamo tra Bulgakov e Gogol) ha bocciato la proposta d’installare il regalo tra le aiuole di piazza Duse. Ovvio che, nella capitale dell’innovazione e del design, la mamma in bronzo che allatta alla tetta non è che possa creare entusiasmi. I cittadini si sentono più rappresentati dal ditone medio di Cattelan e dall’Apple store di Norman Foster. Probabile che la statua, di gusto ottocentesco, non sia piaciuta ai commissari, e allora, poiché ci si immagina che siano persone gentili, non volendo offendere i parenti dell’artista si sono inventati di bocciarla non per bruttezza ma perché “la scultura rappresenta valori rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, ragion per cui non viene dato parere favorevole all’inserimento in uno spazio condiviso”. Manca solo lo schwa. Quale sia il valore non condivisibile nell’allattamento al seno nessuno potrà mai spiegarlo senza scatenare l’ilarità collettiva. Tuttavia, Milano è alle prese con un problema non di poco conto: le donne non sono rappresentate nella toponomastica e nella statuaria cittadina. Come al solito, sono tutti maschi. Provvidenziale, è arrivata una nuova statua dedicata a Margherita Hack, quindi non a una donna qualsiasi che allatta, bensì “il primo monumento italiano su suolo pubblico dedicato a una scienziata”, come ha dichiarato l’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi. Creato dall’artista Sissi, vincitrice di apposito concorso, è stato collocato in largo Richini, nei giardinetti davanti alla Statale. La scultura, alta quasi tre metri, è una specie di vortice galattico da cui sorge una donna che tiene le mani e la testa come se stesse scrutando le stelle con in mano un cannocchiale, che invece non c’è.
Va detto che solitamente a Milano le statue servono soprattutto come sfogo per il risentimento sociale. Basti pensare a quante volte è stata imbrattata quella dedicata a Montanelli, reo di aver intrattenuto un matrimonio durato due anni con la quattordicenne eritrea Destà durante la lontana guerra d’Abissinia. Guerra che i protestatari, probabilmente, non sanno nemmeno collocare nello spazio e nel tempo. Comunque, per par condicio, anche “Love”, il ditone di Cattelan, ha avuto l’anno scorso la sua colata di vernice gialla, lanciata dagli attivisti di Ultima Generazione. Indenni dai manifestanti, almeno sinora, le mani e le braccia gigantesche di Lorenzo Quinn (figlio di Anthony), ex attore che si è buttato su quest’idea degli arti lattei che spuntano dalle acque e dal suolo, anche per nove metri, e che sono finiti esposti ovunque, dal Canal Grande al Giardino di Boboli, da Vieste a Penghu (Taiwan). Un po’ scultura monumentale da realismo socialista, con allusione alle progressive sorti, e un po’ incubo tipo Woody Allen nel “Dormiglione”, quando si sveglia dopo essere stato ibernato per duecento anni.
Ma il vero luogo comune della statuaria contemporanea sono gli animali. Ormai da anni vanno moltissimo collezioni di manufatti zoomorfi pseudo artistici, scelti perché imprimano un tono colorato e gradevolmente animalista a luoghi ameni, che invece ne escono devastati. La chiamano cracking art: gigantesche chiocciole, cani, conigli, elefanti di plastica rigenerata nella scala cromatica dei pennarelli evidenziatori, smerciati ovunque, fino in Cina e in Cile. Il “movimento” è stato fondato nel 1993 da quattro furbacchioni imbevuti di “forte impegno ecologista che senza toni catastrofici utilizzano la pratica del riciclaggio”. E ancora: “Ogni installazione è carica di messaggi nascosti”, hanno dichiarato. “Siamo uomini del presente e vogliamo che il nostro lavoro interpreti le problematiche contemporanee”. Per inciso, problematiche e tematiche sono due tra le parole più detestabili del lessico attuale, come se ci fosse bisogno di sovraccaricare di pensosità i “problemi” e i “temi”.
Proprio in questi giorni il Castello di Montecavallo, nel biellese, cerca di attrarre visitatori con l’augusto parco appena riempito di plastiche zoomorfe da sogno lisergico. Senza l’animalone reincarnato, che un tempo fu flacone del probiotico, fustino del Dixan e giacca di pile, il turista non si fa er selfie, non tagga il castello, e quindi quel luogo non esiste sui social, che è poi come non esistere in sé. In pratica, le enormi lumache celesti, i conigli col muso da fumetto, i lupi bluette fungono da Ferragni inanimata e più ecologica, per giunta senza quelle ricadute determinate dalla fragilità umana che potrebbero annullare i benefici della campagna pubblicitaria.
Per secoli, lo zoomorfismo è stato una cosa seria: incisioni rupestri, arte egizia, longobarda, islamica, e poi gargoyle medievali, e tutto questo arrivando a ridosso delle nostre vite, a fine Novecento, quando arte e decorazione intesa come elemento replicabile di arredo si fusero o confusero definitivamente. Al Salon de la Jeune Peinture di Parigi del 1965, François-Xavier e Claude Lalanne portarono un gregge di ventiquattro pecore: legno, lana e rotelle per spostarle meglio e poterle eventualmente usare come posti a sedere extra. Immane successo, con le repliche di queste pecore che finirono nelle dimore del jet set, incluse quelle di Gianni e Marella Agnelli, di Yves Saint-Laurent e Pierre Bergé, di Valentino e Giammetti, persino nel castello di Ferrières del barone Guy de Rothschild. Un gruppo di pecore lalanniane è stato venduto per 7,5 milioni da Christie’s nel 2011.
Alla fioritura di pecore nelle magioni più esclusive, i furbi Lalanne fecero seguire scrivanie in ottone a forma di rinoceronte, cammelli divano, ippopotami vasca da bagno, gorilla con cassaforte interna, fino ad arrivare agli orsi in bronzo patinato da novecento chili, pensati per i più sontuosi giardini privati. Uno lo volle Carla Fendi per la sua casa di Sabaudia, come regalo per il marito Candido. Furono necessari trasporti speciali per arrivare sul mare attraversando le stradine della bonifica pontina, poi documentati in un apposito libriccino. Uno di questi orsi è stato venduto nel 2022 da Christie’s per 3.660.000 dollari.
In ambiti meno decorativi e più artistici, nel ‘69 c’era stata l’installazione dei dodici cavalli vivi di Kounellis alla Galleria l’Attico di Roma. Nulla di utilizzabile per arredare le case, così come, francamente, le mucche e gli squali in formaldeide di Damien Hirst sono più utili per arredare alberghi e ristoranti: una mucca con gallo sul groppone racchiusi in immane teca troneggiava nel mezzo del ristorante Tramshed di Londra, specializzato in pollo arrosto servito intero, in piedi, con rimandi di effetto macabro che riverberavano dalla teca al centro del locale sino al tavolo col pollo impalato. Mentre lo scheletro dorato di un dinosauro, sempre racchiuso in gigantesca vetrina, è l’attrazione dell’albergo più lussuoso di Miami, il Faena. Voi state a bordo piscina nel Mammoth Garden dell’albergo, e vedete una continua teoria di visitatori mettersi in posa per testimoniare fotograficamente di aver goduto dell’opera di Hirst.
Ci sono poi i cani, cavalli, asini di Cattelan imbalsamati e appesi in posizione drammatiche, spesso di terga. La testa e il busto mozzato, le zampe posteriori con la coda che pendono in giù dalla parete. Qui l’aria è decisamente meno algida e farmaceutica delle opere di Hirst, e questi animali non sembrano particolarmente adatti per arredare alberghi e magioni di collezionisti. Se ti svegli di notte e ne vedi uno spuntare dalla parete, rischi di gridare dallo spavento. Ma proprio a quegli spaventi cattelaniani sembra ispirarsi la fauna di Stefano Bombardieri, che ha occupato piazze di Capri, di Forte dei Marmi e di altre quotate località turistiche con i suoi rinoceronti ed elefanti appesi e imbragati: nonostante l’angosciante immagine di bestioni selvatici penzolanti dalle cinghie, la gente non vede l’ora di fotografarsi sotto la rappresentazione della povera vittima. A Brescia, nel quadriportico della piacentiniana piazza Vittoria è installato uno di questi rinoceronti imbragati. Il senso, a detta dell’artista, è denunciare lo scandalo dei bracconieri che li mutilano con motoseghe per rivendere i corni. Magari i turisti saltano la visita al Santa Giulia, il museo dove si trova la croce di re Desiderio, però sotto all’animalone in fibra di vetro si trovano sempre capannelli di persone stupite e ammirate dall’opera. “Il rinoceronte è metafora del concetto di peso ed è sospeso come spesso lo è la nostra vita in particolari momenti di estrema gioia o di grande dolore”, ha dichiarato l’artista.
E come non citare il colossale gorilla bronzeo, alto circa tre metri e creato da Davide Rivalta per Hypermaremma. Anche lì è tutto un selfie davanti allo scimmione, con gli acculturati frequentatori di Capalbio e Porto Ercole in piena vacanza intelligente, nel vento della spiaggia della Feniglia. Arriverà poi anche uno scimpanzé, che sta per essere deposto sugli scogli del Porto Etrusco di Ansedonia. Rivalta è ormai una celebrity dell’arte animalier: anche lui ha creato rinoceronti (uno fu collocato sulla spiaggia di Antibes) e poi aquile, babbuini, bufale e soprattutto leoni, alcuni dei quali sono stati a lungo sulla gradinata della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, in pose placide, oziose, depotenziate. Decorativi gattoni inoffensivi.
Sin qui, tra arte e arredo, le creazioni più costose. Dopodiché bisognava pur creare qualcosa di altrettanto stuzzicante ma alla portata di persone meno attrezzate. Ed ecco allora la Cow Parade, che forse i più giovani non ricordano. Nei primi anni Duemila, lo scultore svizzero Pascal Knapp, “sperimentando forme e linguaggi innovativi”, produsse mucche di grandezza naturale in vetroresina, col manto decorato, portatore di sofisticati messaggi, perlomeno nelle intenzioni dell’artista. Migliaia di estrosi artigiani e di creativi anche di minima fama vennero coinvolti nella decorazione delle mucche, portate poi in rassegna in giro per le capitali del mondo. Innumerevoli animali in vetroresina, in seguito prodotti anche in miniatura e venduti come “mucca decorativa artistica”, ma smerciati anche in figurine per i collezionisti più piccini. Oggi le Cow Parade non usano più e non si sa che fine abbiano fatto tutte quelle mucche. Buttate in qualche discarica di paese svantaggiato, oppure vendute per decorare giardini privati nelle periferie del mondo.
Non rimane che provare nostalgia per i nani da giardino, in terracotta, ceramica o cemento, che a partire dall’Ottocento vennero ritenuti prestigiosi decori non solo delle villette periferiche, ma persino di Villa Valmarana che, affrescata da Giambattista Tiepolo, è conosciuta come “ai Nani” proprio per via dei diciassette nani da giardino schierati sul muro di cinta.