Grandi domande
Quel che resta dell'umanità, mentre si cerca una scienza dell'essere umano
"Essere o non essere umani" di Björn Larsson apre interrogativi che possono dare le vertigini, come quelli sullo scopo, sul senso della vita e su tutta la condizione umana
Dire umanità, parlare di genere umano non si può più usando come sinonimo la parola “uomo”. La tradizione di un tale uso linguistico (“il destino dell’uomo”) si è ormai giustamente interrotta e la responsabilità dell’interruzione è dovuta all’autocoscienza femminile e al movimento femminista. L’umanità non è dell’uomo ma degli esseri umani, sono maschi e femmine, ognuno di loro un individuo con le sue caratteristiche singolari. Ci sono femmine che si sentono e vogliono essere maschi e maschi che si sentono e vogliono essere femmine, anche se per nascita e biologia non lo sono. Ma sesso e sessi a parte, e a parte anche ogni personale preferenza sessuale, il vero problema credo che sia un altro. Che sia cioè, come dice il titolo del libro dello scrittore svedese Björn Larsson, "Essere o non essere umani" (Raffaello Cortina Editore, pp. 436, euro 26). Il libro si apre su interrogativi che possono dare le vertigini, come quelli sullo scopo, sul senso della vita e su tutta la condizione umana.
A questo punto viene subito in mente un grande scrittore, Michel de Montaigne, la cui grandezza e la cui prima caratteristica è che ogni pagina della sua opera è dedicata all’osservazione e riflessione sulla condizione umana a partire dalla propria vita e dal proprio carattere. Il difetto secondo me imperdonabile del volume di Larsson è che in tante pagine non viene mai nominato Montaigne, autore dei Saggi, cioè ricerche e tentativi di pensiero autobiografico. Larsson è sia un romanziere che un docente universitario di letteratura francese, un filologo e linguista, un traduttore e teorico della letteratura. Eppure in questo suo libro dedicato agli esseri umani dimentica di essere uno scrittore, vestendo i panni dello studioso e dello scienziato. Non fa che esibire una bibliografia divisa diligentemente in specialismi scientifici: genetica evoluzionistica, neuroscienze, psicologia cognitiva, paleoantropologia, etologia, sociobiologia, scienza della letteratura, antropologia, teologia... Per chiedersi, alla fine, se può darsi una scienza dell’essere umano e se ne abbiamo bisogno, dato che in questa scienza l’essere umano è sia oggetto che soggetto di studio.
La competentissima problematicità di Larsson risulta un po’ esasperante. Arrivo a pagina 300 e leggo: “L’essere umano, un tempo riserva esclusiva della filosofia e della teologia, e più tardi delle scienze umane e sociali, con la medicina, il diritto, l’economia, è oggi un ‘oggetto’ privilegiato in quasi tutte le branche delle scienze naturali, dalla fisica del microcosmo all’astrobiologia, che ricerca la vita sugli altri pianeti dell’universo. Ma si può dire che esista o pensare che possa mai esistere una scienza unificata dell’essere umano? E in caso affermativo, che scienza sarebbe? Su quali basi metodologiche dovrebbe poggiare? A quali limiti andrebbe soggetta? Ma soprattutto: ne abbiamo davvero bisogno? E se sì, a che scopo?”.
Strano candore quello che qui mostra un professore di letteratura francese e in più romanziere in proprio come Larsson. Inutile continuare a fare, come lui fa, i nomi di naturalisti famosi, da Linneo e Buffon a Darwin. Si dovrebbe prendere atto che il proliferare delle scienze copre il campo dell’intero essere umano ma in quanto oggetto di studio e non in quanto soggetto che studia o più semplicemente cerca di capire sé stesso anche al di fuori della scienza in generale e delle innumerevoli singole scienze, ognuna con i suoi metodi e limiti.
A questo punto anche io stesso, come soggetto di ricerca sull’umano, ricordo che una volta, nel corso di un’intervista dialogica in coppia con Enzensberger, dissi improvvisando che la letteratura “è l’unica scienza possibile di ciò di cui non abbiamo altra scienza”. Ma mi vengono in mente altri due amici. L’incipit di una poesia di Patrizia Cavalli: “Io scientificamente mi domando / come è stato creato il mio cervello, / cosa ci faccio io con questo sbaglio”. Compare in sole tre righe due volte il soggetto, l’io come oggetto di una “scienza personale” necessaria per vivere. E ricordo il titolo dell’ultimo libro che Piergiorgio Bellocchio volle pubblicare: Un seme di umanità. E che cos’era questo seme se non ciò che capirono e di cui scrissero una serie di narratori vari, da Casanova, Stendhal e Dickens ai grandi russi dell’Ottocento, per arrivare a T. E. Lawrence, Hasek, Céline, Isherwood, Orwell, Fenoglio, Bianciardi, Montaldi, Kubrick... Dunque la critica letteraria è una scienza morale dell’essere umano? Più o meno sì, credo.
Concludo con la ragione che più mi aveva attirato nel libro di Larsson e che Larsson ha evitato di discutere. Si tratta del destino che sembra avere l’umanità intesa come attributo sia virtuoso che essenziale del genere umano, in un futuro di automi programmati per calcolare e decidere scientificamente senza chiederci nessun fallibile giudizio di valore sul da farsi, sul come farlo e sul perché. Teniamoci le nostre imperfezioni, i nostri dubbi, i nostri discutibili desideri e i nostri dolorosi rimorsi per gli errori fatti. Lasciamo la perfezione e l’infallibilità alle macchine.