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L'Europa di Thomas Mann

Michele Magno

Il crepuscolo di una civiltà nella “Montagna magica”, che compie 100 anni. Utopia e attesa messianica, religione dell’eros e melancolia

Ha cento anni ma non li dimostra. Li ha compiuti uno dei capolavori della letteratura del Novecento, il romanzo di Thomas Mann Der Zauberberg: La montagna incantata nella traduzione di Ervino Pocar (Corbaccio, 1992); La montagna magica in quella di Renata Colorni (Meridiani Mondadori, 2010), ristampata a gennaio (con un saggio di Michael Neumann, a cura di Luca Crescenzi) insieme alla novella La morte a Venezia, della quale in origine Der Zauberberg doveva rappresentare un semplice pendant grottesco. Lo spunto autobiografico che ha ispirato il narratore di Lubecca risale al 1912, quando si reca con la moglie Katia Pringsheim al sanatorio Berghof di Davos, sulle Alpi svizzere. Le emozioni vissute durante la visita colpiscono a tal punto Mann da spingerlo alla stesura di un’opera che, nonostante le intenzioni iniziali, lo avrebbe impegnato per dodici anni. E proprio nel sanatorio di Berghof, in cui il tempo è sospeso in una sorta di perenne presente, dove passato e futuro sembrano annullarsi, va in scena il declino di un’epoca irripetibile che trova in un ambiente segnato dalla malattia e dalla sofferenza la sua espressione emblematica.

La montagna magica è un affresco della civiltà europea alla vigilia della prima guerra mondiale. Un tornante drammatico, nel quale confluiscono le tendenze spirituali del secolo precedente, tra loro in contrasto ma giunte tutte a un punto critico di fronte al disastro bellico. Il protagonista del romanzo, Hans Castorp, è un giovane “né genio, né sciocco”, ma dotato di una insolita volontà di conoscenza, che lo porta ad allontanarsi dalla sua solida ma angusta famiglia mercantile amburghese, e a soggiornare per alcuni anni in un luogo eccentrico come la lussuosa casa di cura del Canton Grigioni. Castorp vi resta per guarire da una forma lieve di tubercolosi diagnosticata da un medico del sanatorio. Ma se dubbia è la necessità del ricovero ospedaliero, certo è il suo desiderio di stare in quell’eremo montano, dove può godere di esperienze spirituali che gli sarebbero precluse nella “pianura” della città natale. Quell’eremo, infatti, è un microcosmo in cui si incrociano tipi umani diversi e si fanno esperienze molteplici: anzitutto della morte, sovrana in quel luogo di agonia, ma anche di disperata vitalità. Il viaggio interiore di Castorp è dunque un percorso di iniziazione alla morte, che si riflette nel pubblico variopinto e spettrale del sanatorio.

Ci imbattiamo così nell’enigmatica e sensuale figura di una donna russa, Clawdia Chauchat, che all’innamorato infelice Castorp svela un mondo di rischiosa libertà e trascinante passione dove ci si può perdere, ma che per chi lo vive è più morale della scelta di conservarsi a ogni costo in una rassicurante mediocrità. E poi nella figura balbettante e goffa ma fortemente carismatica di Pieter Peeperkorn, un olandese di Giava, ricco coltivatore e commerciante di caffè, che arriva al Berghof in compagnia di Clawdia. Peeperkorn appare nel romanzo un “profeta semidivino di quella religione dell’eros e della vita che è la speranza di Hans e di tutti i pazienti del Berghof” (Luca Crescenzi). In effetti il magnate olandese, con la sua energia prorompente, appare il nume tutelare di un nuovo credo vitalistico. Solo che è un uomo malato e, forse, più di ogni altro personaggio del romanzo è affetto da una grave melancolia patologica. L’impossibilità di soddisfare le esigenze o, per usare le sue parole, di adempiere al “dovere religioso del sentimento”, equivale per lui a una “catastrofe cosmica, un orrore inimmaginabile”. Per lui, se cessa il diritto di godere del piacere dell’esistenza, subentra il dovere della morte.

Nell’itinerario pedagogico di Castorp il suicidio di Peeperkorn è un momento di svolta. Perfino le figure dei due suoi mentori principali vengono messe in ombra. Il primo è Lodovico Settembrini, fervido ammiratore dell’Inno a Satana di Giosuè Carducci, che fin dal primo momento gli suggerisce di abbandonare il più in fretta possibile il sanatorio. E’ un umanista e un razionalista di vecchio stampo, che crede ottimisticamente nella capacità di autoperfezionamento dell’uomo grazie ai progressi della scienza. Rappresenta l’Italia del Rinascimento e del Risorgimento, la Francia dell’Illuminismo, l’Inghilterra dell’economia manchesteriana. La sua funzione è quella di magnificare con strepitosa retorica le virtù del lavoro, dell’uguaglianza, della fratellanza tra i popoli e della giustizia sociale. E’ quel “letterato della civilizzazione”, moderno assertore di un primato della politica che piega l’arte a strumento di propaganda ideologica, che Mann aveva schernito nelle Considerazioni di un impolitico (1918). Gli si contrappone, sedicente erede della Russia rivoluzionaria e della Spagna austeramente cattolica, un gesuita, l’ebreo galiziano Leo Naphta.

Coi suoi discorsi corrosivi e impetuosi, egli irride il nobile donchisciottismo di Settembrini e sostiene che l’individuo è geneticamente incline alla sottomissione e a un condiviso destino collettivo, a cui è pronto a sacrificare la propria libertà, ad accettare il comunismo e, come sua condizione, il terrore. Il suo ideale è quello retrospettivo della società medievale e, in prospettiva,  quello “della figliolanza divina senza stato e senza classi”. Gli infiammati dialoghi tra i due ricordano il dostoevskiano Poema del Grande Inquisitore (nei Fratelli Karamazov), ripreso qui in chiave ironica perché Settembrini non può certo somigliare al Cristo del Poema, la cui misteriosa forza sovrumana risalta nel suo indecifrabile silenzio e bacio finale all’Inquisitore.

L’elogio della morte trova in Naphta un grande patrocinatore il cui acume colpisce Castorp, ma il cui terrorismo spirituale lo disgusta. Di fronte al comunismo radicale e al cattolicesimo oscurantista del gesuita, è l’umanesimo democratico di Settembrini, amico della vita, a catturare la sua simpatia.  E tuttavia Castorp non si schiera dalla parte dell’italiano. Come osserva Michael Neumann, forse qui si insinua qualcosa di personale. Heinrich, il fratello di Thomas Mann, era uno dei rari intellettuali che avevano disdegnato la guerra, accolta dall’entusiasmo generale, sin dal momento in cui era scoppiata; egli difendeva non solo la democrazia di stampo occidentale, ma richiamava gli scrittori a una netta assunzione di responsabilità. Il suo modello era l’Émile Zola del J’accuse. Tutto ciò era allora alquanto estraneo a Mann, che dal cosmopolitismo dei primi anni, sotto l’influsso del periodo bellico, era scivolato in un nazionalismo enfatico. Il proseguimento della guerra non solo aveva mandato in frantumi la patriottica fiducia nella vittoria, ma aveva anche portato gradualmente alla luce le crepe nelle fondamenta di quel mondo borghese nei cui valori si riconosceva. Di fronte al mutamento epocale in gestazione, si trattava di comprendere che “dopo sarebbe stato tutto diverso, che nulla sarebbe ritornato come prima, che nessuno avrebbe continuato a vivere nel suo modo consueto e che, se pur lo avesse fatto, sarebbe stato un sopravvissuto a se stesso” (Considerazioni di un impolitico, Adelphi, 1997). 

Alcuni studiosi hanno visto nella figura di Naphta quella del filosofo ungherese György Lukács (Y. Bourdet, Lukács, il gesuita della rivoluzione, Sugar, 1989). Un altro nome che è stato fatto come “modello” del gesuita è quello di Carl Schmitt, al pari di Lukács deciso avversario della democrazia liberale. E’ stato Pierre-Paul Savane, professore di Letteratura francese a Aix-en-Provence, a chiederselo in una lettera indirizzata a Mann. Nel febbraio 1952 questi gli rispose negando di aver conosciuto direttamente, negli anni in cui aveva lavorato al romanzo, l’opera del giurista di Plettenberg, mentre ammise di aver letto gli scritti di Lukács, ma solo di critica letteraria. 

Va notato però che già a metà degli anni Trenta nell’articolo “La politica di Carl Schmitt”, Delio Cantimori aveva avvertito nelle teorie e nel personaggio di Naphta un’eco delle sue idee: “Nello strano miscuglio delle esperienze filosofiche e storiche che costituisce il sostrato culturale delle dottrine schmittiane, dal legittimista e papista ex massone De Maistre al duro teorico della dittatura rivoluzionaria Donoso Cortés, dal sindacalista moralista Sorel al protestante disperato Kierkegaard, da Marx a Bakunin, dagli anarchici a Lenin: tutta gente decisa, pronta a imprimere una forma con la violenza nel caos […]”. In questa varietà di motivi, prosegue Cantimori, Mann “per far parlare uno dei suoi personaggi più tetri che meglio aiuta a renderci conto della situazione spirituale di tanti tedeschi di ieri e di oggi, l’ebreo gesuita anarchico Naphta del Zauberberg trovò espressioni e pensieri propri di Schmitt” (Tre saggi su Junger, Moeller van den Bruck, Schmitt, Edizioni del Settimo Sigillo, 1985).

Plausibili o meno che siano queste interpretazioni, è indubbio che lo straordinario intuito creativo di Mann gli ha permesso di cogliere ciò che era già nell’aria all’inizio del secolo, ossia  quella rottura della coscienza europea da cui emersero comunismo e nazismo. Mann nel gesuita Naphta ha colto l’ambivalenza di quel fenomeno che, per usare un’espressione dello stesso Lukács, si chiama “anticapitalismo romantico”. Esso si manifesta in una concezione utopico-messianica della rivoluzione bolscevica, in cui tutta la civiltà moderna, individualistica, atomizzata, alienata, viene sottoposta a giudizio e condannata in nome di un’altra comunità che, nell’ideologia fascista, si nutre di valori diversi: nazionalistici e razzisti, ma altrettanto organicistico-totalitari. 

Dopo il suicidio di Peeperkorn, la parabola discendente che il percorso di formazione di Castorp ha iniziato non conosce più interruzioni. La sua avventura al Berghof è ormai conclusa. Resta il tempo per un’ultima, paradossale esperienza nella quale viene coinvolto suo malgrado: una seduta spiritica nella quale accadono eventi inspiegabili. La dirige il dottor Krokowski, che invita i partecipanti a dedicare a ciò che succede durante la seduta una “attenzione fluttuante”. Una ragazza, Elly Brand, sbalordisce i presenti con i suoi poteri telecinetici. Richiama anche lo spirito di una creatura defunta. Durante la seduta l’ordine delle cose si capovolge e per un attimo affiora l’illusione che la vita possa esistere dopo la morte. I pazienti del Berghof sono tutti segnati dalla sua prossimità, ma si trovano nel sanatorio – fuori del tempo e della storia – per guarire. La malattia l’hanno contratta in “pianura”: “è lì il vero dominio della sofferenza”. E, non diversamente da Castorp, sono tutti melancolici. Come sottolinea Luca Crescenzi, tutto ciò lascia intendere che la melancolia ha, nella Montagna magica, una funzione paragonabile a quella che la “decadenza” rivestiva nei Buddenbrook: è lo stigma psicologico e esistenziale della moderna civilizzazione, ed è il vero pericolo che incombe sull’Europa prossima al suicidio collettivo del conflitto mondiale. Ma la melancolia del giovane Hans è, per Mann, identica a quella dell’individuo dotato di superiore sensibilità e creatività. Qui l’autore riprende l’antichissima tradizione medico-filosofica risalente a Ippocrate e ad Aristotele, secondo cui la melancolia è sì una terribile afflizione dello spirito provocata dall’eccesso di bile nera nel corpo, ma anche il temperamento naturale degli individui dotati di superiori facoltà intellettive. 

Quando Mann pubblica la Montagna magica, la disoccupazione di massa e un’inflazione alle stelle stavano gettando nel panico la popolazione tedesca (il 1923 sarà definito un “anno inumano”). Il 24 giugno 1922 il ministro degli Esteri Walther Rathenau era stato assassinato da due sicari dell’estrema destra, militanti nei Freikorps. Era il primo segnale dell’instabilità e della violenza che avrebbero aperto la strada al nazismo. Il 15 ottobre 1922 Mann pronuncia un celebre discorso nella Sala Beethoven a Berlino in occasione del sessantesimo compleanno del poeta e drammaturgo Gerhart Hauptmann, uno dei maestri del naturalismo tedesco, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1912. Nella sala, oltre allo stesso Hauptmann, erano presenti anche  numerosi studenti schierati su posizioni nazionalistiche e ostili alla Repubblica di Weimar, che lo contestano rumorosamente. Mann spiega che la democrazia, contrariamente a quanto affermano i suoi nemici, si adatta alla cultura e alla tradizione tedesche meglio del guglielminismo e dell’oscurantismo “sentimentale”, soprattutto quando esso disonora il paese con ripugnanti e folli assassinii. Espone quindi il motivo del suo intervento: “E’ mio proposito, lo dichiaro francamente, guadagnarvi, ove sia necessario, alla causa della repubblica e a quello che si suol chiamare democrazia e che io chiamo umanità, per avversione alle voci ciarlatanesche pullulanti intorno a quell’altra parola (avversione che divido con voi): intendo far propaganda per tale causa in mezzo a voi, al cospetto di quest’uomo e poeta che mi sta davanti, la cui schietta popolarità si fonda sulla più degna fusione di elementi nazionali e di elementi umani” (Della repubblica tedesca, in Moniti all’Europa, Mondadori, 2017).

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