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Ecco la storia della famiglia Bleve, la commedia secondo Marco Ferrante
Dimenticatevi qualsiasi stereotipo sulla Puglia, dall'allegria alle location marittime. "Ritorno in Puglia” (Bompiani), il romanzo dello scrittore e vicedirettore di Videonews, non è una commedia all'italiana, bensì una commedia umana
Dimenticate la Puglia che conoscete. Dimenticate la Puglia, anzi le Puglie, modaiole e balneari. Le Puglie finte allegre. Ma scordatevi pure quelle retoriche o finte tristi. Non ci sono lagne, qui, o peggio ancora “location”. Di stereotipi fate insomma tabula rasa perché il romanzo di Marco Ferrante, Ritorno in Puglia (Bompiani), non è cosa da commedia all’italiana, bensì da commedia umana. E persino la nostra terra – desolata d’inverno, instagrammatica a Ferragosto – si riavvolge adesso nei sentimenti del realismo storico. A partire però da un paese immaginario: Tisa; e da una data vera: 28 marzo 1997.
È Venerdì santo quando Katër i Radës, l’imbarcazione della guardia costiera albanese, una bagnarola rubata a Saranda da trafficanti clandestini, cola a picco nel Canale d’Otranto speronata dalla corvetta Sibilla. I morti sono ottantuno e ci si chiede come sia possibile. Il governo Prodi – “il governo progressista” – ha ordinato l’azione nel mar Adriatico. E ancor più surreale, in questa tragedia, pare il commosso “tycoon di destra”, quel tipo patafisico “che suscita tutte le vostre passioni e tutto il vostro scetticismo”, Silvio Berlusconi. Ed è giusto in un intrico di passioni e scetticismo che all’indomani della tragedia un uomo s’attacca al televisore.
È Bernardo Bleve, il grande padre. Lui che viene dalla terra, che della terra e dell’agrumeto ha fatto un’industria di succhi di frutta – l’AranBleve – e che si mette ora in moto perché le lacrime non bastano. Perché il pianto non sa appianare il più indisciplinato dei sentimenti. Quel senso di colpa che è come un fuoco sotto la cenere. Quel rimorso che calpesta sempre il confine tra narcisismo e amore. Sono gli anni Novanta, e mentre il mare seppellisce i suoi morti, Bernardo decide di accogliere i vivi. Una famiglia di albanesi – capofamiglia Gezim – irrompe in casa sua e della moglie Elena (consorte “amata in quanto istituzione”, fattucchiera del burraco elegante, amministratrice di pettegolezzi nel triangolo Taranto-Brindisi-Lecce: un romanzo a sé).
I Bleve li accolgono, e a Tisa arrivano un altro padre, un’altra moglie, una figlia di nome Aurora e la cugina Jelana. I loro destini s’intrecciano a quelli dei tre figli di Bernardo: Francesca, il piccolo Pietro e il grande Gelasio che vive a Londra – dalle bibite all’alta finanza – guadagnando più del suo vecchio padre, in uno scontro simbolico non meno che reale. E ancora: fra gli zii, i cugini, i figli dei figli, i parenti vicini e lontani, ci sono i figli dei fattori, gli autisti innamorati, gli amori non ricambiati, gli altri bambini albanesi che cresceranno.
A questo punto, si capisce, quel nucleo che sembrava intangibile – la famiglia Bleve – va incontro all’antico tracciato della xenía. E cioè dell’ospitalità come dovere morale – vissuta, nel romanzo di Ferrante, con fare di fascinosa provincia – e dell’ospite che capovolge l’ordine costituito. Dello straniero che rompe un equilibrio già scosso. In un cerchio che dalla tragedia in mare porterà alla tragedia in terra. Fra piazze ortogonali, tufacee, e case bianche e spoglie. Tra alberi di fichi e fioroni, in una storia di famiglie speculari l’una all’altra. Di colpe e rimorsi che s’inseguono sino all’ultimo atto. Sinché lo scafista pluriomicida – lo stesso che aveva salvato la famiglia di Gezim – chiuderà il cerchio.
È un romanzo di grande storia e di storia umana, questo di Marco Ferrante. Di antichi luoghi letterari, e poi di luoghi fisici e di persone. Di contraddizioni messe in chiaro: amor di borghesia e lingua lucida. E poi, più di tutto, è una storia di “quelle cose che, con espressione sfacciata e piena di pretese, chiamiamo emozioni”. Qui, in Puglia, come in “un pomeriggio immobile… Fermezza dell’Universo”.