Il Foglio Weekend
Il cielo in una cella: reportage dal padiglione Vaticano della Biennale di Venezia
La Santa Sede ci vede sempre più lungo degli altri e come nelle ultime edizioni della mostra, sia in quella di arte che in quella di architettura, il suo è tra i padiglioni più hot
È inutile, la Biennale è appena cominciata ma già si conosce il vincitore, morale e forse anche materiale, il Vaticano. La Santa Sede ci vede sempre più lungo degli altri e come nelle ultime edizioni della mostra, sia in quella di arte che in quella di architettura, il suo è tra i padiglioni più hot. Chi può battere del resto l’idea di ambientare in un vero penitenziario, per giunta femminile, una mostra che viene spiegata oltretutto ai visitatori da vere carcerate? Così si intercetta anche la nuova coolness carceraria, che è diventata un genere: c’è “Mare Fuori”, naturalmente, la serie Rai di globale successo, e “Il Re”, “prison drama” di Sky con Luca Zingaretti, e poi ci sono i libri di Valeria Parrella “Almarina”, romanzo ambientato nel penitenziario minorile sull’isola di Nisida, e il reportage appena uscito di Daria Bignardi, “Ogni prigione è un’isola”, non serve sinossi.
Le carceri, possibilmente minorili e vista mare sono il nuovo place to be; sono, come dicono quelli della tv, la nuova “arena”. Quindi ecco che il geniale cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede, oltre che poeta, ha organizzato alla Giudecca, nella antica prigione femminile, una biennale carceraria che già spopola. Utilizzando la prigione come fondale per opere di Maurizio Cattelan, Claire Fontaine e altri sublimi e globali artisti. Si intitola “Con i miei occhi”, la Biennale dietro le sbarre, ed è la più ambita innanzitutto perché esclusiva: le visite sono contingentate, si fanno a gruppi di 25, e sono condotte da carcerate in persona. Ci sono pochissimi turni, bisogna inviare documenti due giorni prima, addirittura per controlli sulla fedina penale. Insomma il frisson è massimo. Ed è tutto uno smuovere monsignori e vescovi per essere ammessi. Qualcuno pensa di commettere piccoli reati per farsi incarcerare (ma coi tempi della giustizia italiana, finisce che ti processano per la Biennale 2040).
Anche il povero scrivente incensurato ci si aveva quasi rinunciato, quando nella notte arriva il fatale messaggio: si è ammessi al turno delle 9,30, quindi via, verso la Giudecca, col 2 o il 4.2, e lì tra i giardini e orti magnifici, superato il Redentore, ecco che si arriva al vecchio “Istituto penale femminile”. Gran fervore di guardie del Dap, il dipartimento della polizia penitenziaria, che mai era stato toccato da tanto glamour, essendo associato spesso invece a fattacci d’altra risma. Si passa sotto i metal detector e soprattutto si devono lasciare i telefonini, chi non si è armato di carta e penna si ritrova catapultato in un mondo pre-iPhone, senza note elettroniche, e senza macchina fotografica. Nudo. Inerme. Alle carcerate-guide poi – ci comunicano - non possono essere rivolte domande, ovviamente elle non possono essere riprese, ma non può essere ripresa nemmeno la struttura, quindi gli operatori delle tv son disperati. Esperiti i controlli finalmente si entra e il carcere più che un Alcatraz sembra un tenero bastione di minima sicurezza, bassi muraglioni di mattoncini e un’aria gentile come le due carcerate che ci guidano, parte di un team di dieci “compagne”, così si chiamano tra loro, che si alternano nel portare in giro la stampa e da oggi turisti e amanti dell’arte.
Quelle che toccano a noi si chiamano una Paola, capelli chiari, tirati indietro, più silenziosa, e l’altra Manuela, mora, tutta ingioiellata e col capello fatto, che parla come una guida consumata e pronuncia tutti i nomi stranieri giusti, insomma pronta per la Fondazione Prada. Entrambe sui cinquant’anni, nei loro abiti bianchi e neri identici (“li abbiamo fatti noi nella sartoria del carcere”) guidano il gruppetto di giornalisti, operatori e fotografi, inglesi, francesi e spagnoli, i curatori Bruno Racine e Luisa Parisi e una traduttrice che appunto traduce in inglese. Ma il 28 aprile ci sarà un ospite d’eccezione, papa Francesco. Prima volta nella storia di un pontefice a una Biennale e pare che Sua Santità abbia fortemente voluto questo padiglione (mentre l'impegno biennalesco vaticano, che finora si era manifestato a spizzichi e bocconi, è confermato almeno per i prossimi 4 anni su volere del cardinale de Mendonça).
Entrando, subito opere di Corita Kent, defunta artista warholiana già suora cattolica, detta “The pop art nun”, coi suoi quadri colorati a grandi lettere. Pope Art o Pop Art? Manuela racconta la storia del carcere, già monastero, fondato probabilmente nel XII secolo e nel 1611 diventato un ospizio per prostitute redente quindi “delle Convertite”. Passiamo dal bar, e si guarda cosa c’è in vendita. Cosa mangeranno mai le carcerate o più probabilmente le guardie? Ci sono panini, un euro e ottanta, pizzette, uno e dieci, barrette Kinder cereali (0,70) e anche le patatine Amica Chips, quelle incriminate per la pubblicità blasfema. Le toglieranno per la visita papale? Ma tutti sanno che Francesco è ironico. Del resto si troverà anche l’enorme murale di Cattelan, l’artista padovano naturalmente celebre anche per la famosa installazione del papa (però Wojtyla) travolto da un meteorite. Manuela dice di essere una grande fan di Cattelan. Che qui in facciata ha dipinto l’opera “Father”, un enorme paio di piedi, che “ricordano il Cristo di Mantegna ma anche il fatto che ognuno di noi nella vita fa dei percorsi non facili e non dritti”, ci spiega lei.
Eccoci in uno stretto camminamento dove una prima scultura al neon del duo (sono una coppia maschiofemmina ma hanno assunto questo nome femminile) Claire Fontaine, che rappresenta un occhio sbarrato, e ricorda un po’ il brand di Chiara Ferragni (e del resto il famoso "pensati libera" nasce proprio da una collaborazione tra Fontaine e Dior). E "Chiara" era in visita nei giorni scorsi a Venezia ma è già tornata a Milano. Ma insomma quest'occhio ferragnesco-carcerario rappresenta “il mancato sguardo sui più deboli, su realtà che non vogliamo vedere”. Giriamo su un bell’orto, e qui viene in mente il padiglione vaticano alla Biennale di architettura dell’anno scorso. All’isola di San Giorgio delle strambe sculture di Alvaro Siza portavano verso il magnifico brolo con pollaio e vere uova appena fatte dalle galline patriarcali, nel senso del Patriarca di Venezia. Oggi qui invece svettano gloriose piante di carciofi (i buonissimi carciofi veneziani), e poi pomodori e patate, che poi vengono vendute il giovedì proprio davanti al carcere. “Biologici e a km zero”, dice Manuela. Passiamo in un cortile dove altre carcerate stanno spicciando dei lavori, trasportando sacchi di immondizia, rigorosamente differenziata, siamo pregati di non disturbarle, e Manuela ci informa che questo è “uno dei cortili di carcere più grande d’Europa”. Sulla piazzola c’è un’altra opera, “Siamo con voi nella notte”, opera sempre di Fontaine, una frase che si trovava già qui ed è stata “montata” a neon, e tiene compagnia alle carcerate nei momenti bui.
Poi proseguiamo nel giardino, dove le carcerate possono far giocare i bambini, se ne hanno, durante le visite. Intanto passano i minuti e noi tutti senza cellulari siamo sollevati e sperduti. Che ore saranno? Nessuno possiede più un orologio fisico. Qualcuno vocifera che siano le 10 e 48. Siamo tutti lì a scambiarci informazioni sul mondo fuori, pezzi di carta e penne per scrivere appunti perché ormai abbiamo la memoria di una noce di cocco. “Come ha detto?”. “Chi è l’artista?”; “Come si scrive?”. Senza Google siamo perduti. Altro che Chat GPT. Qualcuno pensa anche, però: non è mica male, ‘sto carcere. Si vede il cielo, c’è l’orto biologico, e pure il cinema. Ma proseguiamo, appunto con un film sulle carcerate, un cortometraggio in bianco e nero della coppia Marco Perego & Zoe Saldana che racconta la storia, commovente, di una “compagna” come si chiamano tra loro, che espiata la condanna deve uscire da questo penitenziario della Giudecca, e ripercorre malinconicamente i ricordi nella struttura carceraria. Corpi e facce pazzesche, tutte le etnie, tante cicatrici, si vorrebbe conoscere le storie di ognuna (come di Paola e Manuela: che avranno mai fatto per essere qui? Saranno assassine di mariti terribili o avranno rubato dalla cassa del negozio dove lavoravano? Saranno mica innocenti? In questo mistero sta anche parte della fascinazione della mostra. Paola dice solo: “Io sono di Venezia”, e abbassa la testa).
Andiamo avanti in una stanzetta che è stata resa quadreria dalla francese Claire Tabouret, che ha rielaborato le foto di figli e figlie e nipoti delle carcerate in piccoli dipinti (altro momento commozione, loro hanno consegnato i ricordi di quanto hanno di più caro e l’artista li ha trasformati. “Siamo molto soddisfatte. Abbiamo fatto bene a fidarci”). Poi un’altra opera, della brasiliana Sonia Gomes, corde pendenti in un’alta cappella sconsacrata, dove suona una musica d’organo, mentre fuori operai su una gru stanno dando le ultime rifiniture ai piedoni di Cattelan e il banchetto della verdura bio delle carcerate offre la sua merce.
Finito. Si restituiscono penne e matite. Non si ha molta voglia di riprendere contatto col mondo. Sono le undici, scopriamo. Da quanto tempo non si stava un’ora e mezza senza guardare il telefono? Ma tocca riprendere la corsa, “io devo stare a Punta della Dogana tra mezz’ora”, “io ho un treno per Milano tra venti minuti”, “Non funziona Google Maps”. “Ma lo sanno tutti che non funziona Google Maps a Venezia”. Fuori dal carcere, il solito caos delle genti dell’arte che coi loro berretti e tote bag e scarpone fluo si pigiano, per vedere tutto, fotografare tutto, capire tutto, magari trarre un senso da questa bolgia gioiosa e stressante. Da ieri da Milano sono calati in massa su Venezia pure gli influencer, ad arricchire la folla variegata, dopo i giorni dei finger food del Salone ora qui in Laguna per gli eventi "splendidacornice". Chissà le transaminasi. Tutti gli altri, stipati negli alberghetti tre stelle coi puttini e le tappezzerie damascate con gli acari millenari, i negozi di maschere e baicoli, i veneziani coi carrellini che bestemmiano i turisti con lo spritz in mano. Se ai Giardini è andata in scena nei giorni scorsi la contestazione contro Israele (che non c’è), all’Arsenale esplode la colorata rappresentazione di questa Biennale dedicata all’essere straniero (“Strangers everywhere”). Quindi tutti i popoli del mondo. Quattro stati africani sono alla loro prima partecipazione: al Benin si passa subito sotto una cupola non di Mario Merz ma di taniche di benzina, a ricordare la ricchezza petrolifera del Paese, ma la mostra beniniana offre riflessione anche su tematiche quali la tratta degli schiavi, la figura dell’Amazzone e la religione vudù. Intitolata “Everything Precious Is Fragile”, espone anche il concetto di rematriation: un’interpretazione femminista dell’idea di “restituzione”, dunque gran femminone africane, in opere pittoriche gigantesche tra le “compagne”, che sono qualcosa più di amiche, e ricordano le compagne carcerate nei loro sguardi fieri. E poi Etiopia, Tanzania, Senegal che per la prima volta hanno un padiglione (al Senegal, un monumentale puzzle di un’opera murale, formato da 17 pannelli diversi, migranti che viaggiano attraverso il Mediterraneo, giubbotti di salvataggio arancioni avvolti attorno ai loro corpi; una persona rannicchiata in una strada; adolescenti che ridono insieme. Pezzi di una canoa reale spezzata in due giacciono davanti al muro, rotta a metà).
Insomma sembra di essere in un aeroporto incasinato di Mombasa, e per la tribù di giornalisti sbafatori non c’è neanche la lounge, cioè la sala-mangiatoia sponsorizzata da Rolex, riservata alle Biennali di architettura. Quindi uno arriva abbastanza stravolto al padiglione italiano, curato da Luca Cerizza, l’ultimo in fondo. Però qui di nuovo effetto raccoglimento. La stessa idea di un rifugio dal mondo inospitale e incasinato che si era respirata al carcere vaticano. All’ingresso, tutto l’enorme spazio è vuoto, e troneggia solo una lunghissima fettuccia, a terra, con un piccolo Buddha all’estremo (è un organo, si scopre poi, mentre ci viene spiegato che il Buddha è più un Bodhisattva pensoso – figura iconografica dell’arte buddhista che rappresenta un uomo che, raggiunta l’illuminazione, vi rinuncia volontariamente per indicare la via agli altri uomini, abbracciando l’inazione. Tipo: la risposta è dentro di te, però è sbajata). Nello spazio successivo un giardino all’italiana-labirinto di tubi Innocenti funge da enorme canna d’organo, di nuovo, a suonare una melodia un po’ zen e da centro spa, con in mezzo una specie di Jacuzzi con moto ondoso, e ci si può sedere attorno. Altri organi o musiche pendono dai gelsi del giardino fuori, tutto parte della stessa opera dell’artista Massimo Bartolini. Si apprezza la mancanza di oggetti soprattutto rispetto alla Biennale ‘22 che vedeva l’elaborata coreografia, negli stessi spazi, di appartamentini di Gian Maria Tosatti con interni disabitati tipo case di Fantozzi angosciose, mentre quest’anno il padiglione è minimal e poetico. Ma la piacevole sensazione di vuoto dura pochissimo, si torna a Milano, per gli ultimi sprazzi di Salone e controsalone, quest’anno in bilocazione con la Biennale, e lì veramente esperienza carceraria, ma meno zen. La metropolitana – a differenza dei vaporetti veneziani che vanno tutta la notte - chiude a mezzanotte e mezza, non si trovano né taxi né motorini né bici, insomma, si sta ai domiciliari. Bisognerà aspettare la visita di papa Francesco al Salone del Mobile, ma forse è già in programma e noi non ne sappiamo niente, vabbè.