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La vita in letteratura

Il più bel libro di Federica De Paolis annulla le distanze tra memoir e romanzo

Valentina Berengo

Quasi vent’anni sono serviti alla scrittrice per trasfigurare la vita in letteratura, per comandare il gesto della scrittura che tanto le riesce naturale altrove anche qui, in una storia dove i confini tra azioni, finzioni ed emozioni si perdono

Federica De Paolis posa le mani sulla tastiera e scrive il suo più bel libro, che di essere autofiction ha persino la dichiarazione nella nota conclusiva, ma conserva gli stilemi della narrazione finzionale pura, tanto che il romanzo si chiude dicendo: “La verità, in fondo, non esiste”. In Da parte di madre (Feltrinelli, 240 pp., 18 euro), infatti, la distanza tra memoir e romanzo collassa e l’autrice ci conduce nella corsa mozzafiato di una donna vista attraverso gli occhi di sua figlia: è lei che scrive e riordina i fili dei fatti, dei pensieri pensati, delle intenzioni agite e quelle rimaste sulla punta della lingua. “Sentivo che l’inconscio non era uno spazio immaginario, ma un luogo preciso sedimentato nell’anima: premeva per uscire con la sua lingua cristallina”. Quella di De Paolis invece riscrive la sinestesia e nell’affastellare dettagli, azioni, picchi di tensione emotiva e suspense vera e propria, restituisce un’infinità di luoghi, metaforici e insieme puramente fisici: dalle case che le protagoniste abitano, e danno il titolo ai capitoli del romanzo – spostandosi nel tempo avanti e indietro tra il 1976 e il 2001 – ai corpi che mutano, a quei nodi invisibili che sono il rosario di una relazione d’amore senza fine: quella con la madre.

Bella come una Barbie, anzi con le esatte fattezze di quella bambola alla moda del tempo, “fumava moltissimo, beveva centinaia di caffè riscaldati in un pentolino fuligginoso e parlava sempre di lui. Non stava ferma un attimo, inseguiva un altrove misterioso nel quale sperava di trovare pace, senza successo”: era affamata d’amore e il vuoto che cercava di riempire, anche solo restando seduta accanto a una segreteria telefonica che registrava sospiri e silenzi, si trasformava nella danza sincopata della figlia nel tentativo di esistere accanto a lei. Gli uomini si avvicendano – il Fisico, il Selvaggio prima, e per lei che scrive il Gigante o il Ragazzodoro –; le donne si fanno desiderare, inseguono, scalpitano, piangono, mangiano, ingrassano, dimagriscono, guidano come forsennate; la città che le ha messe al mondo le avvolge in un grembo caldo e impedisce che si sfracellino; la letteratura e i romanzi (nelle persone di quella Bianca Garufi che di Pavese è stata la compagna e della voce narrante la psicanalista, o di Milan Kundera i cui romanzi “hanno illuminato la vita” della “sua giovane lettrice”, per tacere di Moravia) aprono squarci e cuciono orli tra il reale e l’impossibile; il destino incombe, ma, come in tutte le opere della scrittrice, arriva al traguardo inatteso.

Quasi vent’anni sono serviti a Federica De Paolis per trasfigurare la vita in letteratura, per comandare il gesto della scrittura che tanto le riesce naturale altrove anche qui, in una storia dove i confini tra azioni, finzioni ed emozioni si perdono: “Amore, per carità, piangi, sennò la volta dopo piangi il doppio”. Piangiamo, sì. E restiamo ammirati da quel cielo che De Paolis ci schiude. Un “cielo che friggeva di stelle”.

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