Tra politica e cultura
La solitudine di Cesare Segre, troppo distante dall'imbarbarimento di massa
L’impegno politico e culturale di un intellettuale. Nato a Verzuolo e cresciuto a Milano: un volume per ripercorrere pienamente la storia di uno dei massimi esponenti della critica italiana novecentesca
Nato piemontese, a Verzuolo in provincia di Cuneo, ma poi cresciuto e divenuto pienamente milanese, Cesare Segre è stato uno degli ultimi esponenti della critica letteraria italiana del Novecento. Semiologo, filologo e professore ordinario all’Università di Pavia, ma forse più di tutto un attivissimo organizzatore culturale, Segre fu capace di dare un rilievo anche politico al proprio impegno. Definendo uno sguardo attento e puntuale sulle cose del mondo che ora trova la propria forma compiuta nel volume saggiatoriano a cura di Paolo Di Stefano dal titolo, Diario civile (il Saggiatore) che raccoglie articoli ed elzeviri pubblicati dal 1988 in poi sulle pagine culturali del Corriere della Sera di cui Segre fu anche redattore. Diario civile rappresenta così un’ulteriore occasione per ritornare sulle pagine di Cesare Segre, in questo caso più specificatamente politiche, e riannodare i fili di un discorso culturale e sociale che tracimò oltre il Novecento arrivando a toccare e percepire alcuni dei radicali cambiamenti che avrebbero definito la nostra contemporaneità. Si avverte fortissimo il disagio di Cesare Segre rispetto a una società che sta prendendo una direzione in parte imprevista. La cultura di massa ormai diffusa negli anni Ottanta, insieme all’abbandono di posizioni politiche radicali (non di rado estreme), disegnano una mappa sorprendente, dentro alla quale i consumi culturali mostrano un carattere nuovo degli italiani. Un movimento difficile da registrare con una strumentazione che si è formata su categorie ora in caduta libera.
All’interno di questo non poco confuso slittamento, Segre mantiene una salda lucidità, ma pur non cadendo in posizioni moraliste, avverte su di sé un’alterità che inevitabilmente si traduce in una forma di inevitabile solitudine culturale e politica. Una distanza e una diversità che si tramutano in un’urgenza a favore di una partecipazione attiva nella società. Fautore di un percorso che intrecciava a stretto giro il lavoro accademico con l’impegno culturale su riviste e giornali, Segre non può non cogliere la riduzione del campo di gioco a cortile. Uno specchio ormai auto riflettente capace di dare voce solo a una ristretta comunità più interessata al ciò che fu che al ciò che sarà. La curiosità verso la televisione, vista come la protagonista mancata di una reale coesione nazionale e agente primario di un imbarbarimento degli stilemi sociali che porterà Segre anche ad affrontare il turpiloquio al “Grande Fratello”, fino al generale degrado di una lingua, l’italiano, che va ben al di là di una mutazione necessaria al suo corpo vivo. Ma è nei ritratti che Cesare Segre sembra ritrovare la misura migliore, quell’intreccio tra sguardo e profondità che caratterizza un’analisi critica e umana, letteraria e biografica.
E solo in apparenza questi articoli possono apparire il rifugio rassicurante di un critico smarritosi in un tempo un po’ ostile. Perché nel racconto di scrittori e delle loro opere oltre che a mostrare il segno di una differenza che si palesa nella parola scritta e in quella letteraria, Cesare Segre mostra anche una capacità assoluta di evidenziare la forza di un linguaggio che nonostante appaia ormai minoritario nel discorso pubblico, resta comunque irriducibile e necessario per dare senso alla contemporaneità. Un pudore verso un tempo che appare sorprendentemente sconosciuto, ma che non evita la fatica e l’affanno per una distanza forse incolmabile quanto incomprensibile verso una società di cui non vede ancora il punto di caduta, o meglio di arrivo. Una perlustrazione in assenza di rotta certa che rende ancora più stoica la sua capacità d’intervento e più prezioso il suo contributo alla cultura italiana.