Salman Rushdie - foto via Getty Images

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Salman Rushdie, di coltello e miracolo. Lo scrittore si racconta nel suo ultimo libro

Annalena Benini

Trent’anni passati nel rifiuto di farsi definire dalla fatwa di Khomeini, poi l’attentato che lo ha trascinato indietro. L’incubo della cecità, l’amore totalizzante per la moglie Eliza, i libri che salvano la vita. "Knife" è l’ultimo pubblicato

"Devo ammettere che, in occasione del nostro primo incontro dopo l’atrocità, mi aspettavo di trovarti cambiato, per certi versi ridimensionato. Neanche per sogno: eri e sei intatto, ancora tutto intero. E ho pensato, sbalordito: è all'altezza della situazione".

Martin Amis, lettera a Salman Rushdie, 2023
 

Stavamo tutti invecchiando, ha detto Salman Rushdie. “E la situazione non migliorerà di certo”. Un’intera generazione si avvicina all’uscita di scena, ha aggiunto. Ma all’altezza della situazione, come ha scritto Martin Amis in quella lunga email a Rushdie poco prima della fine e poco dopo le coltellate. Essere all’altezza della situazione: mi sembra che giri tutto intorno a questa frase, mi sembra la cosa più importante fra tutte e anche il cuore di questo libro. L’attentato atroce contro Salman Rushdie del 12 agosto 2022, la sua sopravvivenza e ripresa miracolose, la volontà di scriverne ma non certo come terapia: come racconto. Il romanzo di un uomo, anzi di uno scrittore, che non si è mai rassegnato a coincidere con la sua fatwa. Che si è fatto cucire e poi scucire una palpebra, e che ha un solo pensiero: continuare a scrivere e ad amare.
 

Coltello. Meditazioni dopo un tentato assassinio è uscito una settimana fa in tutto il mondo, in Italia per Mondadori con la traduzione di Gianni Pannofino, e non c’è stato modo di ottenerne una copia prima. Non che io volessi violare qualche embargo, avevo soltanto la smania di leggere, ma ho aspettato pazientemente, a un certo punto ho soltanto minacciato di darmi fuoco, e poi ecco qui Knife, che porta in esergo una frase di Samuel Beckett: “Siamo altro, non più quello che eravamo prima della calamità di ieri”. Siamo altro, abbiamo perduto l’innocenza. Salman Rushdie scrive che ha una gran nostalgia di quell’11 agosto, un giovedì notte, la sera prima dell’attentato, come in quella striscia a fumetti di Doonesbury, in cui un personaggio dice a un altro: “Sai una cosa? Ho proprio una gran nostalgia del 10 settembre”. Perché l’11 settembre ha cambiato tutto e perché soltanto il 10 eravamo persone spensierate che guardavano la luna piena riflettersi sul lago, o che stavano per pubblicare un nuovo romanzo, o chissà che altro. La calamità piombata addosso a Salman Rushdie la conosciamo tutti, i suoi nuovi occhiali da vista con la lente nera anche, ma le sue parole nel raccontarla sono precise, prive di ogni gusto eroico, e piene di serio stupore: “C’è un uomo che va a letto. Il mattino seguente la sua vita cambierà. Non ne sa nulla, il povero ingenuo. Dorme”.
 

Appena prima di salire sul palco, quella mattina, gli è stata consegnata la busta con l’assegno, il compenso per il suo intervento. Rushdie l’ha messa nella tasca interna della giacca, un completo Ralph Lauren che è stato poi tagliato e per cui poi ha provato sincero dispiacere, ma adesso quello stesso uomo pesa venticinque chili di meno e il lato positivo è che ha smesso di russare (non consiglierebbe a nessuno la sua dieta, visto che bisogna sempre mettere le didascalie). La busta macchiata di sangue è tra i reperti indiziari. Quando era a terra, Rushdie ha visto tutto quel sangue e ha pensato: “Sto morendo”. Un tizio, un pompiere in pensione, gli teneva un pollice premuto contro il collo per evitare che il sangue uscisse a fiotti. Si è imbarazzato nel rispondere alla domanda: quanto pesa? ma ha risposto comunque, ed è stata l’ultima cosa che ha detto prima di volare in elicottero verso l’ospedale e venire addormentato da una maschera anestetica. Comprate il libro se volete conoscere il peso in chilogrammi.
 

Salman Rushdie è sopravvissuto, “come i lettori più attenti avranno intuito”. Ma prima di questa miracolosa sopravvivenza, e poi rimessa in sesto, che cos’è successo? Che cosa sono stati quei minuti? “Con la coda dell’occhio destro – l’ultima cosa che il mio occhio destro avrebbe visto – ho scorto l’uomo nero che correva verso di me lungo il corridoio alla destra della platea. Vestito di nero, con una maschera nera. Avanzava veloce a testa bassa: un missile rasoterra. Mi sono alzato in piedi e ho osservato la sua progressione. Non ho tentato di fuggire. Sono rimasto pietrificato”.
 

Trentatré anni dopo la sentenza di morte per bestemmia emessa dall’ayatollah Khomeini contro di lui e contro chiunque avesse a che fare con il suo romanzo del 1988, I versi satanici, un giovane uomo vestito di nero che non sapeva niente di lui ma aveva deciso di ucciderlo, gli correva incontro con un coltello, e da due giorni dormiva nei dintorni. Rushdie non ha visto il coltello. Ha sentito una gran botta alla mandibola destra e ha pensato: “Mi cadranno tutti i denti”. Poi ha visto il sangue.
 

“A quel punto sono accadute diverse cose in rapida successione, ragion per cui non sono sicurissimo del loro ordine cronologico. C’è stata la ferita profonda alla mia mano sinistra, che ha reciso tutti i tendini e quasi tutti i nervi” (e molti mesi dopo Fran Lebowitz gli ha chiesto, seria: “Tu sei destrorso, dico bene? Come mai, allora, hai alzato la mano sinistra per difenderti?”). “Ho ricevuto almeno altre due profonde coltellate al collo e una in faccia, sempre sulla parte destra. Se ora mi guardo il petto, vedo una serie di ferite al centro, e due altri tagli in basso a destra; più giù, nella parte alta della coscia, un’altra lesione. E ho riportato danni anche al lato sinistro della bocca e all’attaccatura dei capelli. E poi c’è stata la coltellata all’occhio destro, l’affondo più crudele: la lama è penetrata fino al nervo ottico, e non c’è stata alcuna possibilità di salvarmi la vista. L’ho persa”.
 

La perdita della vista dall’occhio destro non è solo la perdita della vista dall’occhio destro, non è solo il dolore, la pena, la proposta (respinta) di un occhio di ceramica, ma ha a che fare con l’incubo di Salman Rushdie di tutta la vita: la cecità. Ognuno ha il proprio incubo: i topi, l’impotenza, la perdita della memoria. Nel suo penultimo romanzo, La città della vittoria, la protagonista viene accecata. Quella scena è stata scritta prima del 12 agosto, e prima del 12 agosto Rushdie ha avuto diversi incubi sul venire accoltellato, è perfino caduto dal letto. La cosa peggiore del mondo per Rushdie è perdere la vista. “E ora mi ritrovavo senza più l’occhio destro, mentre il sinistro, l’unico che mi rimane, è affetto da una degenerazione maculare, una malattia della retina che può portare a una quasi completa perdita della vista”. Iniezioni nel bulbo oculare una volta al mese e la speranza che la situazione resti stabile, non c’è molto altro da fare.
 

I lettori bisognosi di dettagli splatter verranno soddisfatti, ma anche tutti gli altri, perché Salman Rushdie, con ironia e con un grande e irresistibile amore per la vita, riflette sulla violenza ma anche su quello che è successo proprio a lui come uomo libero e come scrittore, e riflette sul cambiamento che non avviene mai davvero, perché la cosa confortante è che resterai chi sei. Rushdie non è diventato credente, non ha cambiato la sua idea del mondo, non ha cambiato, per quanto possibile, modo di vivere, ma adesso esprime con grande slancio privo di distacco l’amore per la sua famiglia, per gli amici, e l’amore romantico e totalizzante per sua moglie Eliza, con cui era sposato da un anno quando è stato accoltellato e quasi ucciso. Ma ecco qual è il punto: “Il risvolto più spiacevole dell’aggressione è che mi ha di nuovo trasformato nella persona che mi ero sforzato in tutti i modi di non essere. Per più di trent’anni mi sono rifiutato di farmi definire dalla fatwa e ho insistito per essere considerato come l’autore di tutti i miei libri: cinque prima della fatwa, e poi altri sedici. Ci stavo finalmente riuscendo. All’uscita dei miei ultimi libri, la gente aveva smesso di farmi domande sugli attacchi contro i Versi satanici e contro di me. E ora rieccomi qui, trascinato di nuovo e mio malgrado in questo discorso. Adesso temo che non riuscirò mai più a eluderlo. Qualunque cosa io abbia scritto o possa scrivere di qui in avanti, sarò sempre quello che è stato accoltellato. Il coltello mi definisce”.
 

Questo è un pensiero da scrittore. L’orrore per le definizioni. E un uomo che considera la vita dei suoi libri importante almeno quanto la sua. E se si deve rassegnare, allora quel coltello diventa il titolo del suo libro. Non lo ha soltanto subìto. Infatti, allo stesso tempo, Rushdie considera che i libri, insieme alle persone che l’hanno soccorso e insieme all’amore dei suoi, gli abbiano salvato la vita. I libri, insomma, sono il suo unico atto di fede. 
 

“No, non credo ai miracoli, però sì, i miei libri ci credono. Per citare la celebre formula di Walt Whitman: Mi contraddico? Benissimo, allora, mi contraddico. Non credo ai miracoli, eppure la mia sopravvivenza è miracolosa. Okay, allora. E sia. La realtà dei miei libri – il mio ‘realismo magico’, se proprio volete – è ora la realtà in cui mi ritrovo a vivere. Forse i miei libri, per decenni, avevano costruito quel ponte, e adesso il miracoloso era in grado di attraversarlo. Il magico era diventato reale. Forse erano stati i miei libri a salvarmi la vita”.
 

Secondo Milan Kundera, morto mentre Rushdie scriveva questo libro, la vita è un’esperienza irreversibile. Non ci sono seconde bozze. Non si mettono le correzioni. Eppure, scrive Rushdie, a lui è stata data proprio una seconda bozza. Un secondo tentativo. La questione diventa allora ben più urgente del coltello, dell’odio, perfino della verità: come impiegare questo nuovo giro di bozze? La risposta magnifica di Rushdie, mi sembra, è: come sempre. Lavorando e amando. È questo che significa: essere all’altezza. Della morte e della vita.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.