Foto dalla pagina Facebook di Luca Ravenna

l'intervista

Luca Ravenna si racconta: "I monologhi nascono parlando tra me e me. La politica? C'è un Salvini in ognuno di noi"

Giuseppe De Filippi

Il comico a colloquio con Il Foglio: "Quelli più pericolosi, anche tra i comici, sono quelli che dicono voi o, anzi, peggio, quelli che dicono loro, additando chi non è qui con noi in sala”

Cominciamo a chiacchierare con Luca Ravenna sfiorando involontariamente il tema del momento. La questione è se con quel mestiere dello stand-up comedian non si rischi di perdere un po’ il senno a parlare sempre da soli, ancorché davanti a un pubblico. Monologhi, discorsi senza il controllo di un interlocutore, invettive senza contrappesi, preparate prima, rovesciando la frustrazione da esprit de l’escalier ma barando un pochino, roba da diventare matti, no? “Ce la caviamo davanti al pubblico, perché qualche forma di interazione c’è – risponde – il problema è quando sei proprio da solo, tipo in motorino, e cominciano i dialoghi, neppure i monologhi, ma tra te e te stesso e quello è più pericoloso, ma finché poi c’è lavoro e quei momenti di conversazione interiore si traducono in pezzi da recitare in realtà diventano un bel modo per sfogarsi”. No, il dialogo con sé stessi non vale e non lo accettiamo a discolpa, e poi c’è sempre questo io, io, mentre adesso va molto il noi. “Non sarà un dialogo quello con sé stessi ma è impossibile fermarlo. E comunque quelli più pericolosi, anche tra i comici, sono quelli che dicono voi o, anzi, peggio, quelli che dicono loro, additando chi non è qui con noi in sala”. Questo sembra proprio un riferimento a Beppe Grillo e Ravenna ci risponde “esattamente”. E come hai assistito alla sua carriera comico-politica? “Eh, quando ero più piccolo, intorno ai 14 anni, mi ricordo che a Milano era un evento enorme quando passava in teatro, mio padre e i suoi amici cominciavano a parlarne con attesa e andavano ai suoi spettacoli, che poi hanno costituito la base di quello che sarebbe stato il Movimento 5 stelle. Non posso dire di averla vissuta bene quell’epopea. Ora penso che se uno fa il comico è meglio che continui a farlo, che poi un comico sperimenta la possibilità di libertà totale, che è più interessante ed entusiasmante di qualunque altra condizione, come ad esempio quella di leader politico. Comunque, chissà com’è il nuovo spettacolo, quasi quasi vado a vederlo”. 

E i temi come li scegli, oltre alle ispirazioni che ti vengono in motorino? “Non ci devi troppo pensare, devi fidarti di ciò che ti viene fuori. Certamente non li scelgo guardando i social, anche per non incorrere in cose che sembrano gigantesche in quei giri e poi dopo due settimane sono già tramontate, dimenticate, e fai la figura del nonnetto che vuol fare lo spiritoso. Un po’ i miei temi li scelgo ascoltando gli altri colleghi e cercando di fare il contrario. Per capirci, normalmente va molto il sesso, che sta alla stand-up comedy come l’amore sta alle canzoni di Sanremo. Allora, ho provato a ribaltare questo schemino e ho proposto al pubblico un pezzo dove mettevo al centro l’amore e il romanticismo, in cerca di un modo diverso per trattare, poi, lo stesso tema”. 

 

La politica, invece, proprio non fa ridere? “Sì, sì, negli spettacoli ne parlo, in passato mi è stato chiesto spesso perché non parliamo di politica e in particolare della politica che interessa ai giovani. Ho cominciato a rispondere, o a rispondermi, che, intanto, ho 36 anni e quindi non sono così giovane e ad analizzare i temi che interessano i giovani, a partire dalla questione ambientale, ma poi non mi viene facile prendere i politici, anche quelli più criticabili, come bersaglio comico, inteso come qualcosa di staccato da noi, da me, da chi viene ai miei spettacoli, e penso che sia facile, ma non produttivo (di risate), prendersela con i politici pensando che siano altro da noi, quando, invece, un po’ di loro è dentro tutti noi. Prendi anche uno dei più scarsi a mio parere, Matteo Salvini, be’ non ti estraneo del tutto, direi, anzi, che c’è un Salvini, un po’ di Salvini, dentro di noi, che lo si ammetta o no. Poi, insomma, poveracci, non deve essere facile fare politica in un paese dove, che ci sia tu o un altro, non si riesce mai a combinare niente. Io vedo una macchina burocratica che blocca anche la politica e allora i politici finiscono per passare il tempo come noi e cioè berciando sui social, dicendo puttanate atomiche”. Oppure nei talk, con quell’aria da commedia dell’arte. Ride e poi raccoglie lo spunto. “Ma sì – dice – e poi l’Italia ha nella tradizione teatrale uno dei suoi grandi valori e siamo anche un paese di tifosi eccezionali. E, ancora citando mio padre, vedo che con i suoi coetanei ora vivono con partecipazione le battaglie magari su Twitter. Ma loro negli anni Settanta vivevano la politica in strada, pericolosa, dove se sbagliavi a vestirti o sbagliavi strada rischiavi di essere menato o peggio. E adesso con la stessa intensità e lo stesso spirito di parte, sperimentando dolore e rabbia, stanno sui social, come se non sapessero che, in realtà, quella è roba che non esiste”. 
Però i social servono come grandi diffusori non tanto di idee quanto di controllo reciproco o, peggio, di polizia del pensiero. Anche in quel caso forse siamo di fronte a un’illusione ottica e ci riferiamo, come detto prima, a un luogo che in realtà non esiste ma prendendolo tremendamente sul serio. Quando metti giù i tuoi monologhi ti limitano le famose cose che non si possono dire? “Mah, non sono di certo quelle che ci arrivano dal mondo anglofono, noi non siamo così puristi della parola o cultori dell’offesa, su un palco qui, in generale, puoi parlare di quello che ti pare e con le parole che ti pare, ovviamente escludendo ciò che proprio legalmente, in senso tassativo, non si può dire. Ovviamente, più è pesante la tua battuta e più è importante che sia buona, più voli alto e più rischi di schiantarti, come dicono i miei amici americani. Una cosa brutta che può succedere è che se ti chiamano per una grande rete nazionale ti accorgi che in modo automatico un po’ ti censuri da solo, oppure quando c’è di mezzo un marchio commerciale, un’operazione pubblicitaria, e lì un po’ ti senti costretto e un po’ ti autocensuri, ma è un rapporto regolato, in cui sai a cosa vai incontro. Ma c’è una cosa che è peggio dell’autocensura ed è l’adesione volontaria ai valori e agli stili del luogo o della rete televisiva o dell’editore che ti ospita, questa idea di far parte di una squadra e quindi adeguarsi, comportarsi secondo certe regole e schierarsi in certi modi”. 

Cosa ti fa ridere della società italiana? “Tutto ciò che è legato ai soldi funziona, sia che si scherzi su quanto facciamo pagare le cose ai turisti sia sulla nostra disponibilità a pagare troppo certe cose, per disattenzione o peggio. I soldi sono un tabù e come tale funzionano per ridere”. 

 

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