La ricerca berlinese di Vincenzo Latronico
"La chiave di Berlino" è un libro che è un bel racconto di solitudine, di incertezza, di amore e psiche
Vincenzo Latronico ha scritto e pubblicato da Einaudi un memoir sulla sua Berlino, la città dove approdò nel 2009, dove ha abitato con qualche pausa italiana e canadese, e dove ancora risiede, con dubbi e nostalgie, una porta aperta è anche una porta che si chiude. Il titolo è “La chiave di Berlino”. La chiave è un’invenzione berlinese che non si è diffusa altrove: uno strumento che ti permette di aprire una porta ma ti impone anche, se la rivuoi, di richiuderla. Il libro, breve e ben scritto, termina con questa metafora che offre il suo titolo. Racconta e spiega molte cose per chi Berlino l’ha conosciuta prima della caduta del Muro, per chi l’ha frequentata in modo straight, borghese, studentesco, appostandosi nella biblioteca di stato da dove si vedeva sotto il cielo il muro a Potsdamer Platz e l’edificio dei Philharmoniker, e abitando a Schöneberg tra montagne di burro e le cacche infinite e confortevoli dei cani prussiani, una specialità da marciapiede che sarà certamente scomparsa. Per chi ricorda il grido “Die Sonne, die Sonne!”, con la gente che usciva di casa e si sedeva al sole su una sedia, Berlino ovest era una città piena, viva e molto occidentale in ogni senso, un’isola libera.
Latronico racconta invece l’attrazione di una città vuota, da riempire, e della débauche di quelli che facevano flanella à la Baudelaire, à la Benjamin, in un ambiente urbano riunificato dalla storia, a Prenzlauer Berg e vicinanze. Parla con disinvoltura dei rave e di che cosa significasse questa tristissima e folle ricerca della meraviglia in feste sesso e droga che duravano tre, quattro giorni, senza notti né albe; parla con disinvoltura delle amicizie difficili, della sua bisessualità, dell’impresa del lavoro, scrittura e critica d’arte contemporanea in stanze pentagonali, cioè il vuoto riempito dall’immagine creativa ma increata, oltre la storia noiosa dell’arte; dice di Tempelhof, l’area urbana immensa del vecchio aeroporto chiuso dove all’epoca d’oro dei ponti aerei qualche pilota spericolato faceva bombardamenti di caramelle, i Rosinenbomber; il vuoto è ricco di caffè di strada, di appartamenti grandi e sfitti, è quel vuoto di cui l’Economist una volta ha parlato scrivendo che chi passeggia spesso sente il rumore dei propri passi. Buona e rappresentata con uno slancio oggettivo, ma sensuale, che non sa di autofiction l’idea di un luogo fatale negli anni Venti di Kabarett, che risorto riproduce il sé di quell’epoca tragica di decadenza, premonitrice del Reich a venire, il Terzo, per approdare a una intensa gentrificazione startuppista, dolente modernizzazione all’insegna del globale urbano che inquadra New York, purtroppo ormai, come Montréal, come Parigi, come Londra, come Milano eccetera. Le guide sono perfette: Isherwood e Hessel, oltre al resto, e non dovevano essere sorprendenti.
E’ un bel racconto di solitudine, di incertezza, di amore e psiche. L’autore l’ha sfangata, e alla grande, questa ricerca berlinese del sé così elusivo per la sua generazione. Senza orgoglio, con molta apprensione che si legge d’un fiato, con dubbi persistenti che forse non lo abbandoneranno mai, nemmeno oltre la linea d’ombra dei suoi quarant’anni (Latronico è dell’84). Una bella lezione da urban explorer del XXI secolo per chi ha conosciuto l’est prigioniero, questo ritratto di una città libera e vuota. Mi resta solo un dubbio: la sacrosanta paura metafisica del cambiamento, che Fausta Garavini confessò qualche anno fa a Antonio Gnoli in una magnifica intervista, si misura in Latronico solo con città del nord vitale ricco tecnologico. Avesse per una volta scelto Roma, ecco, avrebbe visto che si può regredire e progredire a sbafo della storia, senza mai cambiare.