l'analisi
Vedi alla voce (ambigua): colonialismo. Un saggio
Una parola e un concetto legati al passato che sono entrati, anche con i loro derivati, nel dibattito contemporaneo, generando equivoci e annebbiando la comprensione dei fatti. Com’è successo pure con il termine “Sud globale”
Ci sono parole importanti che appannano invece che aguzzare la nostra capacità di vedere. Esse ci spingono perciò a fare scelte sbagliate, che vanno contro i nostri desideri e i nostri interessi. In questa seconda puntata discuto di due di esse, spesso usate per parlare del mondo contemporaneo e del suo passato, e al tempo stesso per interpretarli, col risultato però di annebbiarne la comprensione. La prima è colonialismo, una costellazione che comprende anche neocolonialismo, teorie post-coloniali e settler colonialism e prende quindi più spazio; l’altra Sud globale, che ne richiede meno.
Colonialismo è il termine generico usato per denotare l’espansione europea cominciata a fine XV secolo e chiusa appunto dalla veloce “decolonizzazione” del secondo dopoguerra. Il termine non sembra quindi creare problemi, ma al più richiedere che si ricordi che di colonizzazioni o migrazioni con colonizzazione ve ne sono state molte e con molte cause: greca, romana, germanica, araba, azteca, ungherese, turca, bantù, delle plantation protestanti in Irlanda ecc. Tuttavia, non appena ci si ferma a riflettere, ci si rende conto che l’uso generico di colonialismo per l’espansione europea non permette di cogliere differenze essenziali e porta quindi a interpretazioni e generalizzazioni fuorvianti, perché riunisce sotto lo stesso termine due fenomeni molto diversi e con effetti diversi, il colonialismo vero e proprio e l’espansione imperiale.
Il primo è la conquista di un territorio seguita dall’emigrazione di una parte della popolazione della potenza conquistatrice, che può anche aprire ad altri gruppi in qualche modo a lei affini. Questo colonialismo “colonizzatore” comporta di regola (ma non sempre) la traumatica scomparsa, riduzione o comunque alterazione della popolazione “nativa” (le virgolette sono necessarie perché anche questa popolazione aveva a sua volta occupato territori prima disabitati o popolati da altri gruppi umani), spesso attraverso epidemie, violenze ripetute e progressiva marginalizzazione. Il caso esemplare è forse quello della Tasmania, i cui ultimi “aborigeni” scomparvero nel XIX secolo: esso ispirò La guerra dei mondi di H.G. Wells, le cui astronavi aliene sono in realtà le navi europee, anche se per una volta virus e batteri attaccano i conquistatori invece di sterminare i conquistati (si tratta, se ci si pensa, di un’ipotesi basata sulla premessa che alieni e indigeni siano di specie diversa, che non è il caso della colonizzazione europea).
Oggetto principale di questa colonizzazione sono state le Americhe, l’Oceania e alcune aree dell’Africa settentrionale e meridionale, come Algeria e Sud Africa, o gli altipiani del Kenya e dell’Uganda. Nelle prime, tranne che in Messico e in alcuni stati centroamericani e soprattutto andini, dove la partita è aperta, la gran parte della popolazione indigena fu presto ridotta ai minimi termini e rimpiazzata da coloni spagnoli (all’inizio castigliani), portoghesi, inglesi, francesi, olandesi e poi via via di altri paesi europei. In Africa, tuttavia, le aree colonizzate dagli europei furono perse nel giro di pochi decenni dopo il 1945, malgrado i tentativi di frenare il fenomeno anche attraverso un apartheid giustificato con la teoria che ogni razza, e ogni popolo, aveva diritto a un suo sviluppo autonomo, e quindi separato.
Nella gran parte del continente, la presenza europea fu invece una presenza di dominio e sfruttamento imperiale, e non colonizzatore, e la cosa è ancora più vera per l’Asia, a eccezione degli scarsamente popolati territori siberiani, colonizzati da slavi diretti e organizzati da Mosca. L’esempio più evidente è l’India, dove centinaia di milioni di indiani erano sottoposti a poche decine di migliaia di inglesi, ma lo stesso vale per l’Indonesia e ovviamente per la Cina, che “colonizzata” non fu mai.
Per capire meglio passato, presente e futuro di tanti paesi sarebbe quindi necessario distinguere tra colonialismo in senso proprio e imperialismo. Il primo si verificò nei territori meno popolati e caratterizzati da un più basso livello di sviluppo, anche in termini di possibilità di difesa. Qui le conquiste europee furono più facili, ebbero luogo prima, e furono presto avviate colonizzazioni poi favorite anche dal boom demografico europeo, che è stato il primo a esplodere a inizio Settecento e il primo a terminare poco più di due secoli dopo.
La conquista imperiale fu invece più difficile, e tardiva, nel caso dei grandi stati asiatici, sconfitti solo grazie agli enormi vantaggi tecnologici e militari permessi per meno di due secoli dalla rivoluzione scientifica e industriale europea. Essa fu ancora più effimera (spesso solo qualche decennio) nel caso di territori, come quelli africani, densi di popolazioni per di più relativamente abituate a convivere con malattie capaci di sterminare i conquistatori.
L’uso generico di colonialismo per l’espansione europea non permette di cogliere differenze essenziali e porta quindi a interpretazioni e generalizzazioni fuorvianti, perché riunisce sotto lo stesso termine due fenomeni molto diversi e con effetti diversi, il colonialismo vero e proprio e l’espansione imperiale
Il fatto che la fase della conquista con colonizzazione abbia di regola (con l’eccezione di parti dell’Africa) preceduto quella dell’espansione imperiale senza colonizzazione contribuisce a spiegare perché il primo termine abbia incluso, “coprendolo”, anche il secondo. In ogni caso, vistosi segni di crisi di entrambi i fenomeni apparvero e furono notati prima di quanto spesso si creda. Già a fine Ottocento Australia e California adottarono politiche white only per difendersi dal “pericolo giallo”, e ci fu chi previde la prossima ritirata europea, anche se ne sottovalutò la scala. E a inizio Novecento i russi furono battuti da giapponesi che avrebbero presto lanciato una campagna contro il pericolo bianco (Hakabatsu), accendendo l’ammirazione delle élites di tutto il mondo colorato.
Come dimostrava l’esempio giapponese, gli esseri umani, ovunque gli stessi e tutti dotati di ragione, potevano infatti abbastanza rapidamente far proprie le conquiste scientifiche e tecnologiche altrui. E già prima del raggiungimento della parità, la potenza del numero moltiplicata dalla capacità generata dalla diffusione/imitazione delle scoperte europee, prese a ridurre velocemente il vantaggio goduto per circa 200 anni dall’Europa. Quest’ultima accelerò poi il suo declino col suicidio delle due guerre mondiali, acuendo una debolezza testimoniata dalla velocità stessa della “decolonizzazione” seguita al 1945.
Se si osserva il fenomeno con qualche attenzione, è tuttavia facile notare che si trattò piuttosto del crollo di un dominio imperiale: a eccezione delle già ricordate aree africane, che hanno visto esodo di coloni, almeno sinora buona parte dei territori realmente colonizzati (Americhe e Oceania) sono infatti rimasti bianchi anche se, a cominciare dagli Stati Uniti di fine Novecento, le cose hanno preso a cambiare, e in alcuni paesi andini e centroamericani sono cresciuti tensioni e conflitti tra discendenti dei coloni e delle popolazioni indigene.
La “galassia” rappresentata dal termine colonizzazione è composta da altri concetti che sono altrettanto fuorvianti, e non solo per i motivi appena discussi. Penso per esempio a neocolonialismo, molto in voga fino a poco tempo fa benché già negli anni Settanta del Novecento fosse chiaro (pensiamo per esempio alla crisi energetica del 1973 o alle votazioni alle Nazioni Unite) che, con la possibile eccezione dell’ex Africa francese, i paesi di nuova indipendenza –liberatisi abbastanza velocemente della presenza europea – stavano rapidamente trovando e affermando la loro autonomia. Personalmente, tendo a pensare che esso dovette almeno parte della sua fortuna, anche tra i giovani europei, al fatto che permetteva agli ex dominanti di illudersi di dominare ancora e quindi di darsi in qualche modo importanza (è possibile vedere una tardiva e a suo modo fantastica manifestazione di questo fenomeno psicologico nel mondo all’incontrario della Gomorra di Saviano, dove è la camorra napoletana a orchestrare in qualche modo i movimenti della Cina – ma purtroppo, o in verità per fortuna, la camorra, come il “capitalismo finanziario”, conta molto meno di quanto non si creda).
Ma penso anche a post coloniale o alla nuova declinazione del termine decolonizzazione, oggi di regola inteso come fenomeno culturale di liberazione dall’ideologia e dalle idee dei vecchi dominatori. Non è però difficile realizzare che siamo in realtà in un mondo post imperiale e non post coloniale, e in cui anzi la maggior parte dei territori davvero colonizzati, come l’Australia o gran parte delle Americhe, sono rimasti tali. Inoltre, quasi nessuno si è decolonizzato nel senso culturale sognato da un Gandhi che predicava il ritorno al telaio a ruota e l’autosufficienza, e chi ha provato a imbarcarsi in vie “originali” di sviluppo come il Grande balzo in avanti di Mao o l’Ujamaa di Nyerere non è di regola finito bene.
Soprattutto, la gran parte degli abitanti dei territori un tempo dominati dall’Europa ha piuttosto importato e imitato, perché lo trovava e lo trova come noi desiderabile, lo stile di vita nato nel nostro continente o in quell’Europa fuori d’Europa che sono stati a lungo gli Stati Uniti, uno stile di vita fatto da antibiotici, medicina, energia elettrica, telefoni, automobili, televisioni ecc., e una preferenza per esso espressa anche da correnti migratorie che hanno una direzione precisa. Certo, questa gigantesca cultural appropriation (un fenomeno assolutamente positivo) è avvenuta e avviene all’insegna delle scelte, delle preferenze e delle possibilità degli “appropriatori”, come è giusto e naturale che sia: non sono mai i vecchi a decidere come i giovani useranno il loro retaggio, e spesso quel che viene preso non è quello che i vecchi stimavano di più. Eppure, sembriamo a volte preferire l’illusione di essere ancora al comando al compito di analizzare questo grandioso e multiforme fenomeno e di capire che ruolo potremmo avere in esso, col risultato di acuirne aspetti anti europei (e anti bianchi), in parte inevitabili ma la cui intensità dipende anche, e forse soprattutto, dal nostro atteggiamento.
Tutto oggi è inoltre complicato da una crisi demografica manifestatasi prima in Europa (dove è palese da circa 50 anni) ma che – a conferma ulteriore dell’unicità della specie umana – sull’onda del miglioramento delle condizioni di vita già colpisce i paesi asiatici e arriverà a toccare l’Africa, l’ultimo continente a vivere il boom della natalità (si calcola che tra pochi decenni circa il 50 per cento delle nascite mondiali avranno luogo nell’Africa sub-sahariana).
Paradossalmente, nei vecchi paesi imperiali e/o colonizzatori si è andata sviluppando in questa situazione una specie di variante inversa della “teoria della sostituzione” che è alla base delle ideologie woke che attaccano il settler colonialism, l’ultimo termine della galassia “colonialismo” che vale la pena di considerare. Come negare infatti l’affinità tra chi definisce quest’ultimo come un “sistema di oppressione… che mira a dislocare la popolazione (spesso indigena) di una nazione e a rimpiazzarla con una nuova popolazione di coloni”, e chi grida contro la “sostituzione etnica” dei nativi europei da parte di minacciose orde di immigrati, denunciando il “Piano Kalergi” nel mondo tedesco o il Grand Replacement in quello francese? E’ un’affinità che rimanda alla comune base “herderiana” di buona parte della sinistra e della destra moderne, entrambe divenute portabandiera di identità, popoli e populismi.
La gran parte degli abitanti dei territori un tempo dominati dall’Europa ha importato e imitato, perché lo trovava e lo trova desiderabile, lo stile di vita nato nel nostro continente o in quell’Europa fuori d’Europa che sono stati a lungo gli Stati Uniti, uno stile di vita fatto da antibiotici, energia elettrica, telefoni, automobili
Una interpretazione particolarmente viziata della teoria del settler colonialism (ammetto che la sua palese infondatezza mi fa spesso sospettare della buona fede dei suoi proponenti, perché è difficile immaginare si possa essere insieme tanto ingenui e ignoranti, ma tutto succede…) è quella che ne propone l’applicazione al caso israeliano-palestinese a partire almeno dal 1948. Si dimentica semplicemente che gli ebrei non erano coloni inviati da uno stato dominante, di cui erano gli agenti, ma profughi e naufraghi di una catastrofe terribile. Il che non vuol dire che i coloni israeliani della West Bank non siano oggi tali, e che a loro non si possa invece applicare, e a ragione, la categoria, cercando di fermarne l’operato.
In generale, sarebbe quindi meglio partire dall’idea che facciamo tutti irrefutabilmente parte della stessa specie, e possiamo coesistere e convivere, anche se certo le identità si formano perché servono, purtroppo anche ad ammazzarsi. Per fortuna sembra di poter dire che almeno dalla scoperta delle Americhe il movimento di differenziazione e quindi di moltiplicazione di identità potenzialmente conflittuali ha invertito il suo segno, anche se purtroppo quel che è vero in linea generale non lo è in tantissimi casi particolari.
Sud globale, evidentemente contrapposto a un “nord” altrettanto globale, è il termine, dall’origine interessante, che ha sostituito la vecchia triade “Primo, Secondo e Terzo Mondo” usata fin verso la fine degli anni Ottanta del Novecento per parlare del mondo, interpretandolo. Era una triade inventata dal geniale demografo francese Alfred Sauvy che, pensando al Terzo stato di Emmanuel Joseph Sieyès e della rivoluzione francese, parlò per primo di “Terzo mondo” sull’Observateur del 14 agosto 1952 per riferirsi all’insieme dei paesi che non appartenevano né al blocco occidentale né a quello socialista.
Si trattava di fatto già allora di categorie troppo rigide, perché sia il primo che il secondo Mondo erano realtà differenziate e anche conflittuali, specie nel caso del blocco socialista. Ancor più differenziato apparve però subito il Terzo mondo, che metteva insieme realtà diverse come l’India, l’Indonesia, o l’Egitto e lo faceva anche ipocritamente, come dimostrò la presenza di membri importanti del mondo socialista come la Cina di Mao, che aveva da poco combattuto contro americani e Nazioni Unite in Corea, e la Jugoslavia al famoso primo vertice di questo nuovo attore globale, la conferenza euroasiatica di Bandung del 1955. Circa trent’anni dopo lo stesso Sauvy, che sarebbe morto nel 1990, osservò che il Terzo mondo ormai non esisteva più, lacerato dalle differenze crescenti tra i suoi componenti (pensiamo all’emergere delle tigri asiatiche).
Il termine Sud globale, destinato a sostituirlo, aveva mosso i primi passi alla fine degli anni Sessanta negli ambienti cattolici legati alla teologia della liberazione e alla contestazione della guerra in Vietnam, in cui si parlava allora dell’intollerabile ordine sociale creato da secoli di dominio settentrionale sul sud globale. Esso era stato poi nutrito dall’avvio, nel 1973, dei negoziati per un “Nuovo ordine economico internazionale”, sostenuti anche dalla maggioranza creata alle Nazioni Unite dal collasso degli imperi europei; ed era stato rafforzato dal rapporto North-South: A Programme for Survival, pubblicato nel 1980 da una “Commissione indipendente sullla questione dello sviluppo internazionale” capeggiata da Willi Brandt, l’ex cancelliere socialdemocratico tedesco, designato nel 1977 a presiederla – a conferma che la storia ama l’ironia – da Robert McNamara, il presidente della Banca mondiale che aveva diretto come segretario alla Difesa la prima fase della guerra del Vietnam, salvo poi pentirsene.
Il rapporto di Brandt dipingeva allora un quadro vero – a metà degli anni Settanta i paesi bianchi di ceppo europeo (Europa orientale e Urss incluse quindi) e il Giappone, con un quarto della popolazione mondiale, rappresentavano l’80 per cento dei mezzi del pianeta. Ma era un quadro in veloce e drammatico cambiamento, simboleggiato dalle “tigri asiatiche” ma soprattutto dalle quattro modernizzazioni lanciate da Deng Xiaoping nel 1978.
Già alla fine del decennio successivo le cose stavano diversamente, eppure proprio allora arrivò il contributo decisivo al successo della categoria di Sud globale, quello della sinistra latino-americana. Nel 1990, preoccupata dalla crisi del Blocco socialista, il Forum di San Paolo, un “Incontro dei partiti e delle organizzazioni di sinistra e antimperialisti dell’America latina”, lanciò un grande tentativo per rispondere a quella crisi avviando la costruzione del “socialismo del XXI secolo”. L’anno dopo il tracollo dell’Unione sovietica sugellava la fine del Secondo mondo e quindi della triade creata da Sauvy, lasciando apparentemente in campo solo un ex “Primo mondo” abbagliato dalla sua vittoria.
La sinistra aveva abbracciato in chiave anti statunitense la teoria della dipendenza, secondo cui ogni sviluppo era costruito sullo sfruttamento e quindi il sottosviluppo di altri paesi. Tesi smentita da quanto avveniva in Cina
Era una sinistra che, come ha dimostrato Carlos Rangel, anche per coprire i suoi fallimenti aveva contribuito a elaborare e poi abbracciato in chiave anti statunitense la teoria della dipendenza, secondo cui ogni sviluppo era costruito sullo sfruttamento e quindi il sottosviluppo di altri paesi o aree geografiche, tesi tra l’altro appena smentite da quanto stava avvenendo in Cina (ricordiamo che esse avevano avuto un certo successo negli anni Settanta anche in alcune aree della sinistra meridionale italiana, salvo poi essere rispolverate in chiave ultra-reazionaria dai movimenti neoborbonici dei decenni successivi).
Al primo Forum ne seguirono numerosi altri e molti dei partiti e delle organizzazioni partecipanti riuscirono in seguito a conquistare il potere, in Venezuela, come in Brasile, in Messico o in Nicaragua (ma la lista è ben più lunga). Il continente latino-americano, il primo esempio di successo del colonialismo europeo nel senso proprio del termine, completo di settler colonialism e di repressione, sterminio e marginalizzazione di popolazioni autoctone (poi adottate come simbolo di riscatto dai discendenti dei coloni bianchi che le avevano oppresse), si presentava così come alfiere di un Sud globale, unito e omogeneizzato dallo sfruttamento e dall’oppressione del Nord. Dall’inizio del XXI secolo il successo del termine si è fatto travolgente (su Wikipedia in inglese si legge che esso appariva in meno di due dozzine di pubblicazioni nel 2004 e in centinaia 10 anni dopo), una fortuna che si spiega col suo colmare il vuoto lasciato dal tramonto del Terzo mondo, ma anche con l’apparente facilità con cui dà conto di quanto avviene sulla Terra.
Esso è però intellettualmente ancora più fragile di quello di Terzo mondo che ha sostituito, e ancor più di esso cela e nasconde la realtà, impedendone la comprensione. Prendiamo per esempio la Cina, la cui inclusione, come abbiamo visto, dava alla categoria di Terzo mondo un sapore ipocrita già nel 1955. Era però allora legittimo sostenere che si trattava di un paese oppresso e umiliato in passato da predoni imperiali, e quindi in qualche modo assimilabile agli altri partecipanti alla Conferenza di Bandung. Ma a fine Novecento la Cina era un paese in via di velocissimo e autonomo sviluppo, la cui crescita smentiva la teoria della dipendenza. E la Cina di oggi è la seconda superpotenza economica, industriale e potenzialmente militare, del mondo in cui viviamo. Lo stesso si potrebbe dire dell’India, prossima superpotenza mondiale, e una trasformazione simile potrebbe riguardare tra pochi decenni la Nigeria. Il Sud globale è quindi una efficace finzione politica, ma una pessima categoria analitica, che mette insieme quel che insieme non sta, e oscura invece di chiarire gli equilibri di potere del mondo. Ciò è mostrato con ancor più evidenza dal suo recente, potenziale allargamento alla Russia di Putin, che oggi si rivolge al Sud globale ma è l’erede orgogliosa di due delle più grandi potenze imperiali, coloniali e oppressive del XIX e del XX secolo, l’Impero zarista e l’Unione sovietica, e ha appena confermato questa “tradizione” aggredendo un paese pacifico.
Al Forum di San Paolo, nel 1990, il continente latino-americano, il primo esempio di successo del colonialismo europeo, si presentava come alfiere di un Sud globale, unito e omogeneizzato dallo sfruttamento e dall’oppressione del Nord
Sud globale è insomma diventata a fine secolo una categoria per dare un’identità nuova alla sinistra e colpire i vecchi paesi dominanti, additandoli come responsabili dello stato del mondo. Ma usandola si perdono di vista le nuove superpotenze, cioè il presente. Converrebbe quindi abbandonarla al più presto, innanzitutto per ragioni intellettuali e morali: farlo è indispensabile per vedere e capire la complessità del mondo e la sua veloce evoluzione, senza farci ingannare da concetti facili che sembrano spiegare tutto ma in realtà accecano. Ma a noi europei abbandonarla serve anche per ragioni di convenienza “alta”: riconoscere i veri deboli del mondo di oggi, che sono spesso anche coloro che si svilupperanno più velocemente nei prossimi decenni, è vitale alla nostra sopravvivenza e può essere utile al loro futuro.