Spoglia essenzialità
Tallis Scholars, alla ricerca dell'uno. Due maestri separati da mille anni di storia
Il canto di Ildegarda e quello di Arvo Pärt. L’anelito a Dio e all’infinito: la vicinanza nell'esprimere il mistero che ammanta la musica sacra
Il fascino della serata che il rinomato ensemble dei Tallis Scholars ha offerto al Teatro municipale “Romolo Valli” di Reggio Emilia sta, probabilmente, nel fatto che a formare il meraviglioso programma sono state le voci di due maestri separati da mille anni di storia, eppure estremamente vicini nella capacità di esprimere il mistero che ammanta la musica sacra: la voce della mistica benedettina. Ildegarda di Bingen (1098-1179) e quella del compositore estone Arvo Pärt (1935). Pärt è certamente uno dei più illustri maestri della musica del nostro tempo, protagonista di un itinerario fecondo e per certi aspetti commovente, sviluppatosi – dagli anni 60 a oggi – nell’alveo di una profonda attenzione verso il canto sacro latino e la musica antica. Quello che anima le sue opere è un linguaggio religioso, si direbbe ascetico, di rara intensità, costruito su un materiale musicale rarefatto (in riferimento alla sua opera fu coniato il termine di minimalismo sacro) ridotto all’essenzialità e proprio per questo capace di risuonare nei più riposti spazi dell’interiorità: “Il molto e il molteplice mi disturbano soltanto, – affermò il maestro – io devo cercare l’uno. Che cos’è questo uno, e come posso trovare la strada che mi conduce a esso?”.
La tensione che vibra in queste pagine invita al silenzio, alla contemplazione, in ciò avvicinandosi potentemente alla spoglia essenzialità che caratterizza il cantus planus cristiano, la monodia liturgica dei primi secoli o la polifonia arcaica, riportandoci là dove non vi era distinzione tra musica e parola ma tra esse perfetta unità e coincidenza: è la voce umana che, spingendosi nell’ambito del sacro, si innalza alle altezze dell’infinitamente altro. Così il canto di Ildegarda, che si direbbe composto esso stesso di silenzio, dove ogni suono giunge da un luogo che è fuori dal tempo e lì fa ritorno: canto d’amore, si direbbe, come quello che può nascere solo alla presenza dell’amato. Pare l’indirizzarsi della coscienza unicamente a ciò che è essenziale: “Tacciano tutti i maestri – scrive un anonimo della tradizione cristiana – tacciano tutte le creature dinnanzi a te: parlami soltanto tu”.
Il dialogo tra i due interlocutori è inframezzato dall’esecuzione del Miserere di Allegri (1630), celeberrima pagina a nove voci che si staglia come una tra le somme rappresentazioni della polifonia rinascimentale. E’ l’opera che in occasione della Pasqua del 1770 il quattordicenne Mozart, ascoltandola in Vaticano, riuscì – con sommo divertimento del padre che entusiasta ne scrisse in una lettera traboccante d’orgoglio – a trascrivere (la diffusione della partitura era, pena la scomunica, fermamente proibita) generando tra gli ecclesiastici sconcerto e tra i contemporanei ammirazione senza fine.
Un viaggio attraverso i secoli, dal Mille ai nostri giorni, con tappa nell’epoca aurea della polifonia classica, per accorgerci che – pur nelle diverse sensibilità e nelle specifiche concezioni musicali – l’anelito all’infinito è la parola più vera e pertinente sulla musica di ogni tempo. E’ quella ricerca dell’unum a cui Benedetto XVI – profondo esperto di cose musicali – si riferì nel mirabile discorso che tenne al Collège des Bernardins, accennando all’attenzione dei monaci benedettini per il canto: “Quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio”.