Yukio Mishima mentre tiene un discorso nel quartier generale delle Forze di autodifesa del Giappone, prima di suicidarsi (Ansa) 

I tormenti di un genio

La passione di Yourcenar per Mishima, che volle per sé la fine di Giovanni Battista

Cristina Marconi

Mishima o la visione del vuoto, saggio del 1981 ripubblicato da Bompiani, è un’appassionata e articolata disamina della vita e del lavoro dello scrittore, esponente e critico di un “Giappone violentemente occidentalizzato”. Vita eroica e morte premeditata

In un tempo di deprecabile e “grossolana curiosità per l’aneddoto biografico”, Marguerite Yourcenar fa un’eccezione rispetto alla sua regola di cercare nell’opera e solo nell’opera “la realtà centrale” di un artista: la “morte così premeditata” di Yukio Mishima, avvenuta il 25 novembre del 1970, ne è parte a pieno titolo, anzi, ne rappresenta il culmine. Per un decennio il suicidio, o seppuku, del celebre scrittore giapponese, che prima si è sventrato secondo il rito tradizionale dei samurai e poi è stato decapitato dal suo amico e sodale, è stato oggetto di un interesse trascinante per la scrittrice francese nata in Belgio e naturalizzata americana. Mishima o la visione del vuoto, il suo saggio del 1981 ripubblicato in questi giorni da Bompiani, è un’appassionata, articolata disamina della vita e del lavoro di Mishima. Un saggio in cui lo sguardo occidentale e quello orientale sono messi a confronto nello scrittore, esponente e critico di un “Giappone violentemente occidentalizzato”, “ubriaco di prosperità” e, alla fine, testimone martire di un “Giappone eroico” sempre meno attuale.

 

Che si inizi con la biografia, dunque: Mishima è nato nel 1925 in una famiglia meno gloriosa e antica di quello che l’autore avrebbe fatto credere in seguito – una debolezza condivisa con Balzac e Hugo, anche loro propensi a farsi più nobili del vero – con la sola eccezione di una figura centrale, la nonna, di alto lignaggio, malata, stravagante, legata alle tradizioni, al teatro, ossessiva nelle sue manifestazioni d’amore verso il nipotino, che vestiva da bambina. E’ lei la custode del passato mitico e aristocratico, una Madame de Guermantes che in più era una parente.

 

“A otto anni avevo un’innamorata di sessanta”, racconterà più tardi Mishima, al secolo Kimitake Hiraoka, mentre Yourcenar osserva che “la follia, la decomposizione lenta e l’amore disordinato di una vecchia malata sono quello che un poeta andrebbe a cercare in questa vita”. La scrittrice legge, racconta le trame e cerca delle analogie con gli scrittori dell’ovest: ci trova alcuni “elementi di autismo” de Lo Straniero di Camus, osserva da vicino il paragone inevitabile con Gabriele D’Annunzio, concludendo che alla fine vale più quello con Jean Cocteau.

 

Yourcenar è po’ delusa che parte dell’opera di Mishima non sia stata tradotta, forse perché come tanti altri aveva un bisogno di soldi che lo spingeva a scrivere “letteratura alimentare”. Un’esigenza dai risvolti spesso positivi nel caso dei grandissimi, secondo la scrittrice, perché il bisogno scuote “l’abituale inerzia del sognatore” e contribuisce “a fare della loro opera questo vaso magma che somiglia alla vita”. Vita che lui estetizza al massimo, per farsi una corazza, per cercare Dio, per evitare di morire una morte brutta. Fonda una milizia di un centinaio di fedelissimi, la Società dello Scudo, e scrive Il mare della fertilità, i suoi Buddenbrook, il testamento di un quarantacinquenne che da sei anni organizza la sua uscita di scena. Il titolo viene dal nome dato ai tempi di Keplero e Tycho Brahe alla pianura della luna “che ora sappiamo essere, come l’intero nostro satellite, un deserto senza vita, senz’acqua e senz’aria”, secondo Yourcenar: “Non si può dimostrare meglio fin dall’inizio che, di quel gran ribollimento che scuote una dopo l’altra quattro generazioni successive, di tanti finti successi e autentici disastri, ciò che alla fine risulta è Niente, il Nulla”. La visione del vuoto di un genio che si mise in posa come San Sebastiano e volle per sé la fine di Giovanni Battista
 

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