In medio oriente
Scrivere un romanzo dopo il 7 ottobre, facendo spazio alla ferita
Il massacro di Hamas ha cambiato anche il modo in cui la vita del popolo Israeliano viene raccontata: oggi tutto ciò che non viene scritto per testimoniare l'orrore di quel sabato sembra non avere più nessuna rilevanza
Nessuna opera distopica in Israele si era spinta tanto in là da immaginare il massacro del 7 ottobre. Che cosa succede a uno scrittore quando la realtà supera l’immaginazione? È difficile creare personaggi immaginari mentre nella mente passano in loop le immagini dei volti di Kfir e Ariel Bibas, gli unici due bambini tenuti ancora in ostaggio a Gaza, e risuonano i racconti sulle violenze sessuali contro le giovani donne. Se come ha affermato Theodor Adorno nel 1949, scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, scrivere letteratura in Israele in questo periodo sembra invece un atto superfluo, tutto ciò che non viene scritto per testimoniare l’orrore sembra non aver nessun tipo di rilevanza. Ma qual è il valore della scrittura quando la realtà supera l’immaginazione? È possibile calarsi nella finzione, raccontare ciò che sarebbe potuto essere quando invece la realtà, ciò che è stato, risucchia come un vortice le nostre risorse esistenziali? Quale significato assume la produzione artistica quando eventi di dolore incommensurabile diventano invece misura di tutte le cose, ridimensionano la nostra percezione e ridefiniscono lo spazio di riferimento nel quale dovrebbe operare la creatività?
“Non penso che chi scrive lo faccia perché attribuisca alla scrittura in sé un significato particolare o perché conosca quale sia questo significato. Scrivere un romanzo, o leggere un romanzo, è un atto necessario come il respiro, come l’amore. Il loro significato è insito nel fatto che esistono”, dice Emuna Elon, scrittrice, editorialista, insegnante di letteratura ebraica, in Italia ha pubblicato La casa sull’acqua (Guanda). “Soltanto che adesso non solo gli scrittori, ma ogni ebreo e sicuramente ogni israeliano dovrà guardare il mondo attraverso il prisma delle macerie del 7 ottobre”. Per anni in Israele si è parlato di scrittori normalizzati, come li definiva Amos Oz, quelli che scrivono di amore, gelosia e solitudine e senza dover fare sempre i conti con l’epopea della nascita di una nazione. Ma adesso che si combatte una guerra di sopravvivenza, sembra impossibile poter scrivere senza dare voce al trauma del 7 ottobre. “Ogni scrittore al mondo scrive del suo luogo e del suo tempo. Anche le storie di Amos Oz sono molto israeliane, da Le terre dello sciacallo e Michael mio, fino a Storia d’amore e tenebra. Da sempre la realtà israeliana ha dato i suoi germogli all’interno della letteratura ebraica. La frattura della quale siamo testimoni dal 7 ottobre trova espressione e troverà espressione anche in futuro, nella vita e nelle azioni di ognuno di noi, e quindi anche nell’espressione artistica in generale e letteraria in particolare. Spero e credo che con il tempo torneremo a scrivere racconti non legati a questa guerra. Tuttavia, come per la memoria della Shoah, anche il trauma del 7 ottobre lascerà il suo segno su di noi e trasparirà dietro tutto quello che diremo e che scriveremo”.
La guerra è entrata anche nelle espressioni di tutti i giorni, la comunicazione interpersonale è cambiata. Basta pensare a tutte le nuove formule coniate per rispondere alla semplice domanda: come stai? Se da una parte assistiamo al fallimento delle parole per descrivere una realtà così drammatica, dall’altra le parole hanno riacquistato il loro peso, e vengono usate con più consapevolezza. Ci sono, poi, espressioni che sono del tutto evitate perché troppo evocative. Una bella fatica per chi scrive. “La lingua cambia continuamente, e non c’è dubbio che eventi così drammatici lasceranno il loro segno anche in campo linguistico. Eppure, mi emoziona ogni volta pensare che proprio nell’ebraico antico della Bibbia e nello specifico quello del Libro dei Salmi, possiamo trovare le parole più adatte a descrivere gli eventi di questi mesi”. Proprio nella Bibbia come in tutto il corso della sua storia, il popolo ebraico si trova al centro della dialettica tra distruzione e rinascita. Emuna Elon ne parla nel suo romanzo La casa sull’acqua, che racconta la storia di una donna che si rialza in piedi dopo la Shoah, si rimbocca le maniche, ricostruisce una casa e contribuisce alla fondazione di uno stato. In questi mesi, la società israeliana, malgrado la guerra e i conflitti interni, sembra rinascere e questa volta dalle ceneri dei kibbutz di Beeri e Kfar Aza. “Il 7 ottobre è stato la Shoah della società israeliana. Un massacro che, senza l’esercito e senza l’incredibile forza vitale del nostro popolo, sarebbe potuto andare avanti e diventare una vera e propria Shoah di ben altre dimensioni. Se pensavamo che l’esistenza dello stato d’Israele fosse una realtà solida e radicata, la guerra di sopravvivenza che ci è stata imposta ci ha fatto ricredere e ci ha dimostrato che la nostra casa galleggia ancora su acque tempestose che rischiano di farla affondare. Nel momento in cui ci siamo permessi di sprofondare nelle divergenze politiche e nelle divisioni interne, i nostri nemici ci hanno attaccato da vicino e da lontano e ci hanno ricordato che l’unica vera fonte della nostra forza sta nella nostra unità”.
Ma c’è un terzo fronte sul quale Israele si trova a combattere ed è quello dell’opinione pubblica internazionale che in gran parte condanna la guerra e chiede a gran voce il cessate il fuoco. E questo si ripercuote anche sugli artisti israeliani che vengono contestati soltanto perché israeliani, al di là delle loro idee e della loro appartenenza politica. “Mio figlio Ori Elon è autore della serie televisiva Shtisel trasmessa su Netflix, che ha riscosso tanto successo perché ha dimostrato che l’universalità dei sentimenti umani aiuta a superare le differenze culturali tra i singoli. L’odio per Israele c’è sempre stato e ci sarà sempre, insieme però a dimostrazioni di vicinanza e di sostegno, e speriamo che queste abbiano la meglio. Negli ultimi anni Ori sta lavorando a una nuova serie televisiva sulla vita di Teodoro Herzl, che ha visto nella fondazione di uno stato ebraico l’unica risposta all’antisemitismo. Penso che questa nuova serie riscuoterà molto interesse sia in Israele sia nel resto del mondo”.
Quando si vive con il pensiero costante degli ostaggi insieme alla preoccupazione per i soldati che combattono al fronte, occuparsi di arte sembra soltanto un privilegio. “Anche io, come molti, ho trascurato quello che stavo scrivendo quando è scoppiata la guerra. La realtà è così drammatica da rendere la storia alla quale stavo lavorando irrilevante, e più in generale, i primi giorni di guerra ho perso ogni interesse per la scrittura. Uno dei miei figli e cinque dei miei nipoti sono stati arruolati la mattina del 7 ottobre, e naturalmente penso a loro giorno e notte, penso ai loro compagni, penso alle nostre sorelle e ai nostri fratelli rapiti e tenuti a Gaza. Malgrado la preoccupazione, il dolore, la paura, negli ultimi due mesi ho iniziato a scrivere una nuova storia. Probabilmente l’ho fatto per sopravvivere. Ho cominciato a lavorare a una storia che si svolge la terza settimana della guerra, nel corso della quale si viene a creare un conflitto tra i personaggi e gli antichi principi della grande storia d’Israele. Il massacro del 7 ottobre e gli eventi che lo hanno preceduto e succeduto sollevano difficili interrogativi sul valore del sacrificio personale a favore della collettività che influenzano le relazioni tra i membri della famiglia israeliana al centro della vicenda, proprio nei giorni in cui la sopravvivenza del progetto sionista viene messa in dubbio”.
Fare spazio alla ferita è quindi la chiave di volta per gli scrittori israeliani per riuscire a scrivere in un momento così difficile. E proprio questo potrebbe rivelarsi il percorso di guarigione dal trauma inflitto dal massacro del 7 ottobre. “C’è qualcosa che guarisce e anche qualcosa che consola nell’atto di raccontare una storia. E sta proprio nella capacità di esprimere a parole quello che inizialmente ci ha lasciato sbigottiti e senza parole”.