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Letture materialiste

Basta liberarsi degli oggetti, o forse no. L'ultimo romanzo di Michele Mari

Giulio Silvano

Recensione di Locus desperatus (Einaudi), un romanzo per feticci dove l'autore celebra l'attaccamento alle cose e il rapporto ombelicale con gli oggetti 

"Cos’è ’sta ossessione che ha la gente coi libri? Se li mettono in casa come fossero trofei. A cosa ti servono dopo che li hai letti?”, diceva Jerry Seinfeld. Andatelo a dire a Peter Kien, il protagonista dell’unico romanzo di Canetti. Andatelo a dire al protagonista del nuovo romanzo di Michele Mari, Locus desperatus (Einaudi), che di colpo si trova una figura misteriosa che vuole portargli via la casa facendo strane croci sul suo stipite. L’uomo che lo disturba non è uno di quegli agenti immobiliari con la sua cravatta in poliestere a righe che vuole farti una “valutazione gratuita”. Ma un tizio “minuto, ingobbito”, con i capelli unti, che “sembrava uscito da un racconto di Hoffmann”. Qui i demoni non sono quelli che creano la gentrification, i profeti del mattone bene rifugio da trasformare in BnB. Qui i demoni sono quelli profondi che giocano con la memoria e con l’identità. Non gli interessano le planimetrie e le doppie esposizioni, al ladro di anime, ma tutti gli oggetti accumulati in vita che della nostra vita contengono un pezzetto, come un horcrux harrypotteriano. “Per prendervi l’anima non dobbiamo fare altro che prendere le vostre cose”. Tavole originali di Magnus, Cocco Bill con dedica, lampade di Achille Castiglioni, una madonna lignea del Cinquecento, raccolte di francobolli, “oggetti di ferro industriale benjaminianamente liberati dalla loro funzione d’uso e promossi a dignità estetica”. E poi i libri, da Bel-Ami al “Voyage au bout de la nuit autografata dall’autore”, da Kafka a Stevenson. “Io avevo dato senso e vita alle cose”, dice la voce narrante, “scegliendole, collezionandole, amandole, considerandole parte di me, immettendovi la mia energia, e loro mi avevano sempre restituito tutto contribuendo alla mia identità e alla mia biografia, modulando i miei pensieri e i miei sogni… Senza le mie cose io non sarei stato più io, e senza di me loro non sarebbero state più loro”.

Non è la prima volta che Mari parla delle cose e del rapporto ombelicale con gli oggetti – che siano le copertine di Urania o le stanze fotografate nel volume di Corraini Asterusher. Autobiografia per feticci. Ma qui la paura della perdita, nella sua tradizione di lettore di avventura, si trasforma in una battaglia per la sopravvivenza. Con lo humor mariano, quell’ammirevole capacità di mostrare i lati più patetici della psiche senza mai prendersi troppo sul serio, baloccandosi con la lingua e con le paranoie, il ridicolo e il tragico incontrano gli istinti del romanzo ottocentesco. Come un bambino sognerebbe di applicare al mondo la fisica dei cartoni animati – un tunnel dipinto che diventa vero, bip bip! – Mari sembra sempre scontento che nella vita dell’uomo del 21esimo secolo non valgano i criteri di L’uomo della sabbia o di William Wilson.
Non si sono viste troppe recensioni di questo libro, una delle poche fughe dal midcult nazionale. Ma forse non è facile recensire Michele Mari, perché si ha paura di non beccare tutte le reference di Poe o Leopardi (Faulkner accusava Hemingway di non mandare mai il lettore a controllare una parola sul dizionario, Mari ti spedisce direttamente a fare la triennale di Lettere). Forse fa risaltare la nostra sindrome da impostore. Quindi anche questa più che una recensione è la celebrazione dell’attaccamento, per noi materialisti, agli oggetti che adoriamo più di molte persone che conosciamo e a quanto può esser doloroso staccarcene – fisicamente, e nella memoria – ma anche quanto possa esser liberatorio combattere per salvarli, e salvarci. “Le cose, le cose! Sono quelle a farci schiavi, basta liberarsene e via, come uccellini spensierati, fare come quel Diogene là…”, dice un personaggio. Ma c’è un motivo se pure Marie Kondo si è pentita.

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