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Letture

Così europea, così estranea. Praga, la città dove l'occidente si è arreso

Marco Archetti

“Praga, poesia che scompare" di Milan Kundera (Adelphi, 102 pp., 12 euro) racconta quando la capitale ceca si lasciò colonizzare da una cultura nemica del cosmopolitismo che la caratterizzava da secoli

Tra il 1917 e il 1928 a Praga era stato già detto tutto e alla Storia non restava che fare il suo ingresso per mimare ciò che la finzione aveva già immaginato”. 

Milan Kundera aveva le idee chiare nel 1980, anno di uscita di questo Praga, poesia che scompare" (Adelphi, 102 pp., 12 euro), titolo modulato su una citazione da Víteszlav Nezval – “come un foglio di carta in fiamme / dove scompare la poesia”. Si tratta di un breve saggio che racconta quanto la capitale ceca appartenga da sempre alla cultura occidentale. Tra il 1910 e il 1940 raggiunse il suo apogeo ed ebbe in Kafka, Hašek e Janácek le sue vette. Il saggio è seguito da “Ottantanove parole" – ma erano settantuno – apparso in origine su Débat in Francia: autodizionario di parole chiave, parole trabocchetto, parole scherzo, parole d’amore.

Praga, occidente. Non solo, afferma Kundera: è il luogo in cui l’occidente si è arreso, lasciandosi colonizzare da una cultura nemica del cosmopolitismo che fioriva nella città magica, messo all’indice insieme alla sua moderna eredità intellettuale. Ma Praga ha sempre guardato il mondo da una precisa prospettiva, quella delle minoranze che la costituivano e che, per immemoriale esperienza, non hanno mai avuto l’abitudine a identificarsi con la Storia vedendo “nei suoi spettacoli serietà e senso”. Al contrario: aliene alla demagogia della speranza e ai deliri della grandezza, hanno presagito il disastro cui l’Europa stava andando incontro. L’ha presagito Il processo di Kafka con la trasformazione di Josef K. in “imputato zelante”. L’ha presagito la stupidità spettacolosa del soldato Švejk che si salva perché non cerca il significato di ciò che è del tutto irrazionale, anzi, si fa spingere per le vie di Praga in sedia a rotelle inalberando grucce prese a prestito. E al comando militare va a sbraitare: “In Serbia! A Belgrado!”, trasformando in farsa i linguaggi del potere.

Eloquentissimo l’aneddoto sulla visita, poco dopo l’invasione russa, del nuovo capo del partito imposto dai sovietici. Grande assemblea di studenti, tutti aspettano Husak. E Husak arriva. La platea urla e scandisce “Viva Husak, viva il partito!” per cinque minuti, dieci minuti, un quarto d’ora, fino a che Husak, paonazzo, è costretto ad andarsene. Il fantasma di Hašek era vivo e vegeto e lottava con gli studenti, ma non fu un caso: Praga era tutt’altro che una provinciona smarrita in sé stessa. Era un luogo vivissimo, uno dei centri più dinamici del pensiero occidentale moderno.  

Fu anche la culla dello strutturalismo prima che il movimento mangiasse sé stesso col dogmatismo: forte il gusto per l’analisi concreta, l’amore per la chiarezza, l’ambizione di affrontare ciò che è essenziale. E poi la resistenza feroce alle forze riduttrici che limitano l’uomo e l’arte – le forze dell’ideologia. 

Due capitoli sono dedicati anche all’opera del compositore Leoš Janácek e al lavoro di tutela e diffusione della sua opera da parte di quel Max Brod che salvò anche le pagine di Kafka, e che aveva intuito quanto il musicista fosse una delle più geniali personalità della cultura ceca. Diede vita a una produzione difficilmente classificabile e contestò il romanticismo non tanto come culto autentico dell’anima, ma come portatore di pose e cliché anziché della nudità autentica del sentimento – tutto il lavoro di Janácček ambisce a liberare la verità da queste maschere.

Poi è venuto quel giorno, e Praga si è svegliata nel bel mezzo della notte totalitaria comunista. Il culto per la piccolezza ha sfidato quello della grandezza, perché Praga non ha mai creduto alle grandi missioni storiche dei popoli. Il senso del concreto si è scontrato con le forze riduttrici della Storia, forte di esperienze intellettuali irripetibili che l’Europa non ha saputo cogliere, affascinato dalla cosiddetta vitalità del sistema socialista, tale a causa della stupidità di chi lo contemplava in ginocchio. 

La cortina dell’incomprensione occidentale è stata la più grande alleata della cortina di ferro.

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