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festival del centenario

Al Maggio Fiorentino tanto Puccini e poco puccinismo

Alberto Mattioli

Daniele Gatti sul podio e la rivelazione carismatica Vanessa Goikoetxea. A Firenze si assiste ad una direzione che è al contempo rivelazione e rivoluzione
 

Che abbuffata di Puccini, in quest’anno di deludente centenario. Già, ma quale Puccini? Prendete Tosca. Al Regio di Parma, è il solito operone veristone, l’antologia del déjà vu, l’opera “come la voleva lui” secondo le care salme affezionate alle care cose, quel genere di spettacolo “tradizionale” dove lei ha appena sforacchiato Scarpia ma deve recuperare il salvacondotto, che è rimasto ovviamente in mano al morto. E allora si precipita a un armadio cui nessuno si è avvicinato, e chissà perché lo apre e cerca affannosamente il documento, in un turbine di fogli che volano in aria, così facciamo qualcosa nel lungo postludio strumentale post mortem e i loggionisti parmigiani sono contenti perché credono che questa sia una regia o, più in generale, l’opera lirica. E poi Daniel Oren Tosca la conosce anche capovolta, ma la dirige sempre come se fosse all’Arena (però c’è uno Scarpia eccezionale, Luca Salsi). 

Poi vai al Maggio fiorentino che ha deciso di tornare a fare sé stesso, un grande festival che “pensa” e osa, e Daniele Gatti ribalta Tosca, facendocela sentire come non l’abbiamo sentita mai e stavolta sì, davvero, “come la voleva Puccini”, per quel che vale, perché alla fine non è nemmeno così importante, l’importante è come la vogliamo noi, qui, oggi. Con Puccini che non è più l’ultimo compositore dell’Otto ma il primo del Novecento, Tosca che non è affatto un’opera “verista”, qualunque cosa significhi, ma espressionista, come insegnava una vita fa Fedele D’Amico (aggiungendo: nove anni prima di Elektra, gli ottoni scatenati nel tema di Scarpia come sigla d’apertura come sarà poi quello di A-ga-mem-non), senza effettoni né effettacci, ma puro teatro in questa sua scabra, lucida, tagliente, meravigliosa essenzialità. Una direzione che è rivelazione e rivoluzione. E con un’Orchestra cui erigere un monumento davanti alla Leopolda, idem i Cori di grandi e piccini, peccato solo, alla mia matinée, l’attacco incerto di “Adjutorium nostrum”, amen (è il caso di dirlo). Puccini e non il puccinismo, insomma. 

Massimo Popolizio sistema la vicenda negli anni Trenta, fra le scene piacentiniane me nemmeno troppo littorie di Margherita Palli (bellissime as usual), come a Firenze si vede dalla Tosca “di” Jonathan Miller, correva l’anno 1986. Dal punto di vista della drammaturgia, nessuna rivoluzione, ma c’è un lavoro assai accurato quindi insolito sulla recitazione dei cantanti. E qui arriva la rivelazione. Detto che Piero Pretti canta come al solito benissimo anche se gli mancano il colore e il calore strappamutande deiCavaradossi doc, che Alexey Markov è uno Scarpia di grande impatto benché declami con accento cosacco e che i comprimari sono ottimi, questa è la Tosca della finora ignota (almeno a me) Vanessa Goikoetxea. Vocalmente, niente di eccezionale: un buon soprano lirico con un timbro personale più che bello, personale, pianissimi suggestivi, un po’ di fibra quando spiega la voce e acuti sicuri, a parte il do della “lama” un po’ alla Meloni in modalità referendum, quindi o la va o la spacca (comunque, la va). Ma carismatici, si sa, si nasce, e lei modestamente lo nacque. Basta che entri in Sant’Andrea, si tolga il velo e non riusciamo più a staccarle gli occhi di dosso, mesmerizzati da una presenza avvinghiante, da una fisicità sportiva e nervosa, molto Thirties quindi giusta per lo spettacolo, e da un “port de bras”, come direbbero i ballettomani, di un fascino straordinario, giustamente valorizzato da Popolizio: il gesto con cui prende fra le mani la testa di Cavaradossi straziato vale da solo la serata.

E per una volta “Vissi d’arte” non è una romanza buttata lì a spezzare il filo del secondo atto, perché altrimenti la primadonna quando la applaudiamo da sola, ma il culmine emotivo dell’opera, con lei che la declama in piedi muovendo queste braccia infinite nel vuoto mentre chi canta è l’orchestra di Gatti, lentissima e avvolgente, angosciosa e ipnotica. Non so se sia il Puccini “giusto”. Ma è il Puccini che vogliamo.