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Luci di speranza

Chi ha paura della fine del mondo. Tutti a parlare dell'Apocalisse, ma i profeti non prevarranno

Siegmund Ginzberg

Catastrofi climatiche, epidemie e poi un terrore che sembrava dimenticato: l’olocausto nucleare. Ma già Susan Sontag aveva capito che queste fantasie servono a distrarci dai guai reali

E le stelle del cielo caddero sulla terra […] e il cielo si ritirò, e le isole e i monti si spostarono dai loro luoghi”. Sono diversi millenni che i profeti prevedono la fine del mondo. Talvolta in maniera altamente poetica, come in questo verso dell’Apocalisse, la Rivelazione a Giovanni (6,14). Spesso non si tratta nemmeno propriamente di una profezia. In genere è qualcosa che è già successo. Al loro mondo, all’ordine a cui erano abituati. Altre volte è un avvertimento di quel che potrebbe succedere in futuro. Un futuro nemmeno tanto lontano.

Su una gigantesca parete sono illuminate le mappe di Russia e Cina e vengono indicati, e continuamente aggiornati in tempo reale, gli obiettivi prescelti e le traiettorie dei mezzi con cui verranno colpiti. Déjà vu? Certo. L’abbiamo visto in un’infinità di romanzi e in molti film, a partire dall’indimenticabile Dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, di Stanley Kubrick. E’ del 1964. Sessant’anni fa. Abbastanza da produrre assuefazione. Sappiamo che è successo davvero. In uno degli impenetrabili bunker a prova di atomica e a grande profondità nel Nebraska, stato dell’America profonda, che chiamano anche Real America. Era un’esercitazione segretissima. Di cui non si è saputo niente per mezzo secolo (benché sia stata un’infinità di volte immaginata). Finché l’ha raccontata per filo e per segno uno di coloro che vi avevano preso parte, un funzionario della Difesa Usa, l’allora vice direttore della sezione Ricerca e Ingegneria del Pentagono John H. Rubel. Nel 2008, quando decise di dire tutto, Rubel era già quasi novantenne. Spiegò che prima di morire voleva togliersi dalla coscienza il peso di un’esercitazione che si concludeva con lo “sterminio di massa” – parole sue – di un quinto della popolazione del Pianeta di allora. 

Lo si legge nel primo capitolo di un libro fresco di stampa, Nuclear War: A Scenario, dell’americana Annie Jacobsen (Transworld, Penguin Random House, 2024). Non si tratta di un libro di profezie. Né di rivelazione di segreti militari. Ma neppure di un romanzo. Si tratta di un “non-fiction thriller”. Nel quale l’autrice, già vincitrice di un premio Pulitzer, dopo essersi documentata e aver parlato con decine di addetti ai lavori, racconta nei dettagli il possibile sviluppo di una crisi originata dall’avvistamento di missili lanciati dalla Corea del nord e diretti verso Washington. L’elemento thriller è nei tempi. A cominciare dai 6 minuti che ha a disposizione il presidente degli Stati uniti per decidere se ordinare o meno una rappresaglia, e di che portata. Per giunta nel trambusto delle procedure per cui lo stanno portando al sicuro, via dalla Casa Bianca. L’azione si svolge molto rapidamente, in tre intervalli di 24 minuti ciascuno. Per farla breve: le contromisure funzionano, tranne per uno solo dei missili coreani, che finisce su una centrale nucleare in California. Falliscono, una dopo l’altra, le valvole di sicurezza, le procedure per fermare la spirale. Finché la Russia, a causa di un cumularsi di malfunzionamenti, di sue limitazioni tecnologiche e di errori di valutazione, conclude che le rappresaglie americane siano dirette al proprio territorio, e a sua volta lancia 1.000 testate nucleari contro obiettivi Usa e della Nato. Finché tutti finiscono col lanciare tutto quel che gli è rimasto. Insomma: 71 minuti, poco più di un’ora alla fine del mondo, o per lo meno del mondo come l’abbiamo conosciuto sino ad ora. 

Fiction? Certamente. Ma raggelante. Impossibile? Forse. Incrociando le dita, diciamo pure improbabile. Nel 1914, esattamente 110 anni fa, un solo colpo di pistola, a Sarajevo, aveva scatenato la Grande guerra. Allora sembrava impossibile che si autodistruggesse quello che, con nostalgia, Stefan Zweig chiamò Il mondo di ieri. La deterrenza nucleare, il Mad (Mutual Assured Destruction), reciproca distruzione assicurata, ha funzionato per tre quarti di secolo. Ma sono anni che si stanno smantellando, pezzo a pezzo, le valvole di sicurezza che avevano contribuito a farla funzionare. Senza sostituirle con congegni nuovi. Niente più Salt (Strategic Arms Limitation Treaties). L’ultimo, il Salt 2, risale addirittura al 1979, quando c’erano Carter e Breznev. Non fu neanche del tutto implementato. Ora non se ne vuole più nemmeno discutere. Il trattato che proibisce le armi nucleari nello spazio (ma non il posizionamento di satelliti, navette spaziali a uso militare e altre armi cosmiche) risale al 1967. Nel frattempo si è aggiunto di tutto e di più. Ma regole, fusibili contro usi impropri (o anche solo accidentali), niente. Quasi come se, nell’epoca delle guerre spaziali, fossimo rimasti ai codici dei duelli della cavalleria.
L’equazione nel frattempo si è enormemente complicata. Le incognite si sono moltiplicate a dismisura. Non ci sono più solo bombardieri strategici e missili e sistemi antimissile, non più solo radar ma sciami di satelliti, e una rete di intelligenze artificiali con molte più sinapsi che il cervello umano. Al club nucleare (e missilistico e spaziale) di Usa, Russia, Inghilterra, Francia e Israele (membro non dichiarato) si sono aggiunti India, Pakistan, Corea del nord. Bussano alla porta Iran, Arabia saudita. E chissà chi altri. L’Iran ha il 27 per cento più uranio arricchito di quanto gli consentisse il trattato abrogato da Trump nel 2018. Potrebbe, si presume, farsi almeno tre bombe. Sinora hanno sempre detto che non ne vogliono fare. Ma dopo l’ultima crisi moltiplicano la minaccia di “cambiare dottrina”. Il Giappone ne avrebbe i mezzi e la tecnologia. In Turchia la prima unità della centrale nucleare di Akkuyu, nel sud, dovrebbe entrare in funzione quest’anno. Ne hanno in progetto una seconda e una terza. In collaborazione con Russia, Cina e Corea del sud. Di bomba ancora non si parla. Ma solo perché non ne hanno le finanze. Il genio (il jinn, che è anche un demonio) è uscito dalla bottiglia da un bel pezzo. Più si complica, meno però si hanno e si pensano strumenti di controllo. Più si accelera, minori possibilità che funzionino i freni.
C’è chi discute se dobbiamo rallegrarci o disperarci per il fatto che l’Ucraina, dopo lo scioglimento dell’Unione sovietica, abbia rinunciato alle sue armi nucleari. C’è chi sostiene che, se le avesse tenute, questa guerra non sarebbe mai nemmeno cominciata: nessuno è tanto pazzo da attaccare una potenza nucleare. Altri dicono che sarebbe già finita in guerra atomica. Chissà se ci sarebbe stata la guerra contro Saddam se avesse avuto davvero armi di distruzione di massa. Contro l’atomica di Kim, Trump l’aveva minacciata, ma si è guardato bene dal farla. Un tabù comunque sembra caduto, almeno a parole. Nessuno esclude più il ricorso a “piccole” armi nucleari, limitate al campo di battaglia. La Russia minaccia a ogni piè sospinto che chi interferisce con la sua guerra in Ucraina, o minaccia direttamente la sicurezza della Russia, dovrà affrontare “conseguenze che non sono mai state affrontate”. Dicono di avere nuove armi che gli avversari nemmeno immaginano. Un bluff? Forse. O anche probabilmente. Ma chi è disposto ad andarlo a vedere? Neanche James Bond nella partita a poker di Casino Royale. 

Con tutta l’attenzione concentrata sull’Ucraina e su Gaza, e dintorni immediati, quasi ci si è dimenticati della Corea del nord. Con cui gli Stati uniti combatterono tra 1950 e 1953 una guerra sanguinosissima, che non è mai finita (c’è sempre solo l’armistizio). Fu coinvolta anche la Cina di Mao, per un pelo non fu coinvolta l’Urss già atomica di Stalin. Il generale Douglas MacArthur, già vincitore del Giappone, voleva usare la bomba. Truman lo licenziò. Joe Biden al momento ha ben altre gatte da pelare. Eppure si sa che Pyongyang regolarmente innesca crisi in anni di presidenziali americane. E’ matematico. Un’analisi del Center for Strategic and International Studies rileva che quando in America si vota la Corea del nord fa quattro volte più test nucleari e missilistici che in anni in cui non si vota. Kim Jong Un ha, nel disinteresse generale, posto fine a ogni discussione con la Corea del sud e l’ha dichiarata “stato nemico”. Potrebbe, dicono gli addetti ai lavori, da qui a novembre testare nuovamente il suo missile intercontinentale a combustibile solido Hwasong-18 (il precedente test era fallito). Loro lo vantano come “l’arma più potente del mondo”. Secondo l’intelligence Usa si appresterebbero a riassumere test nucleari sotterranei nel loro sito di Punggye-ri, e/o testare una “piccola” atomica da campo di battaglia. Russia e Cina continuano a coccolare Kim nipote (sia pure, a quanto si dice, in rivalità tra di loro). Non a caso, il lancio missilistico inatteso, che nella fiction documentata di Annie Jacobsen dà inizio allo scenario da fine del mondo, parte proprio dalla Corea del nord.  

Guerra generalizzata, escalation nucleare non sono le uniche possibili “fini del mondo”. Assistiamo a un nuovo proliferare di tutte le catastrofi planetarie immaginabili. Clima, ecologia, pandemie da virus sconosciuti, fine ingloriosa delle nostre democrazie, si sono venute ad aggiungere ad altri incubi tradizionali, come l’asteroide in rotta di collisione con la Terra, il sopravvento delle macchine e dell’intelligenza artificiale, o addirittura la catastrofe cosmica, o, che so, un’invasione da altri mondi. Forse perché l’umanità ha bisogno di brividi per dimenticare la noia e le miserie del presente.
In un vecchio saggio del 1965, The Imagination of Disaster, Susan Sontag individuava due funzioni delle fantasie catastrofiste: sollevarci dalla monotonia insopportabile dell’attualità e, al tempo stesso, distrarci dai terrori reali o anticipati. Avvertendo nel contempo che questo tipo di incubi collettivi non possono essere spazzati via dimostrando che sono fallaci. Semplicemente perché sono troppo prossimi alla realtà. E perché, per quanto siano immaginari – talvolta pedissequamente, ridicolmente immaginari – evidenziano qualcosa di incontestabile: quanto siamo impreparati a evenienze di questo genere. 
C’è un revival, al cinema e in libreria, di catastrofismo fantascientifico e fantapolitico. Ad esempio, il film Civil War di Alex Garland immagina che gli Stati Uniti divengano, a causa di un presidente che non vuole mollare la Casa Bianca, un immenso campo di battaglia, devastazioni, rovine, esecuzioni sommarie e altri orrori pari a quelli delle guerre in Ucraina e a Gaza. Buona l’idea: chi non ha in mente quel che vediamo ogni sera in tv, non ha presente le scene dell’assalto al Campidoglio di Washington e Trump che continua a dire che non accetterà il verdetto delle urne se non vince lui? Peccato che il film sia noiosino e mal fatto, nonché senza un briciolo di ironia. Non ho visto ancora Megalopolis di Francis Ford Coppola. L’idea di parlare dell’America di oggi col pensiero rivolto alla Roma di Cicerone e Catilina mi intriga. E’ nelle mie corde. Il lettore sa bene quanto mi piacciono le analogie che saltano i secoli, quelle con cui commento il presente con storie del passato. Ma da quel che se n’è visto e letto sinora temo che non sia all’altezza di Apocalypse Now, il capolavoro dell’ormai lontano 1979, il quale a sua volta si fondava su un gioiello letterario, l’ottocentesco Heart of Darkness di Conrad. Ho trovato invece eccezionale l’Oppenheimer di Christopher Nolan, che, col pretesto di raccontare del padre del progetto Manhattan e della prima atomica, sviscera con un bisturi affilatissimo i terrori nucleari di oggi.

Mischia a piene mani passato e presente, scienza e fantasia, la serie su Netflix ispirata a Il problema dei 3 corpi del cinese Liu Cixin. Anche se, confesso, ero riuscito a seguire meglio la sua trilogia in forma di libro. Leggo che non è piaciuta in Cina. Pare si siano offesi perché i protagonisti della serie non sono tutti cinesi, e perché esordisce con una rappresentazione non lusinghiera della Rivoluzione culturale (il padre scienziato della protagonista viene ammazzato a cinghiate dalle Guardie rosse – erano studenti – durante una sessione pubblica di critica all’Università di Pechino, e lei – pure studentessa – finisce ai lavori forzati). Niente di nuovo. Alle dittature non piace il catastrofismo, neanche quello fantascientifico. Richiama troppo le catastrofi provocate dai loro regimi. Gli rovina l’idea che siano il migliore dei mondi possibili. Stalin non sopportava il Noi di Evgenij Zamjatin, scritto tra il 1919 e il 1921. A Breznev facevano venire l’orticaria i fratelli Strugackij. A Putin verrebbe un colpo se rifacessero rivedere il magnifico film in bianco e nero che Aleksej German trasse dal loro E’ difficile essere un dio. Il medioevo che gli studiosi terrestri sono stati mandati a studiare su un pianeta lontano, isolato e storicamente arretrato, somiglia troppo alla Russia. Nel Problema dei tre corpi, l’umanità intera è minacciata dall’invasione di una civiltà lontanissima capace di leggere nel pensiero degli umani. La buona notizia è che ci metteranno 400 anni ad arrivare. Unissero le loro forze forse si potrebbe fare qualcosa per contrastarli. Facevo il corrispondente dagli Stati Uniti quando Ronald Reagan propose a Gorbaciov di discutere di disarmo come se Usa e Urss fossero minacciati da comuni nemici marziani. Prima ancora, nel discorso tenuto a Bergamo nel 1963, il comunista Togliatti, di sponda con il nuovo Papa Giovanni XXIII, dichiarava l’assoluta, terribile, spaventosa “novità” di una guerra nucleare che “non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini, ma può annientare l’umanità”. Non cessarono né la Guerra fredda né quelle calde. Ma la fine del mondo non ci fu.   

Ogni epoca ha i suoi catastrofismi. E’ impressionante quanto le profezie e le immaginazioni di catastrofe si assomiglino. Anche a secoli o millenni di distanza.  Verrebbe da dire che fanno parte del Dna della nostra specie. Tutte le civiltà, tutte le religioni, dalla Cina, all’India, alla Mesopotamia, alla Grecia antica, hanno i loro miti e le loro profezie di catastrofe. Quasi tutte hanno un diluvio, o altro cataclisma, da cui poi però si rinasce. I primi leggendari imperatori della Cina sono quelli che mettono ordine nel caos, imbrigliano le acque. Quando, nel veder levare per la prima volta il fungo atomico nel deserto del New Mexico, Oppenheimer dice: “Adesso sono diventato il distruttore dei mondi”, si tratta di una citazione dalla Bhagavadgita, il riferimento è alla divinità indù Vishnu. Ma forse nessuno ha saputo predire e lamentare disgrazie, devastazioni, massacri, genocidi bene e poeticamente quanto i profeti d’Israele. 
 “Tutto il paese sarà devastato”, dice il Signore degli eserciti alla Palestina per bocca di Geremia (Geremia, 4.15). “Io ricoprirò il cielo e lo farò oscurare le stelle, velerò il sole con le nubi e la luna non darà più la sua luce”, dice il Signore per bocca di Ezechiele al Faraone d’Egitto (Ezechiele, 32:7,8). “E’ venuta la fine per il mio popolo” dice a Israele per bocca di Amos (Amos 8:2). Ed è la prima volta che compare la parola “fine”. Non è ancora la fine del mondo, è la fine del Regno di Israele. Ma Amos è il primo a usare l’espressione “giorno del Signore”, “giorno di tenebre e non di luce” (Amos 5:18). Attenzione: non sempre si tratta di minacce rivolte ai nemici. Molto più spesso si tratta di punizioni preannunciate (o proferite ex post) a danno di Israele che ha tradito i precetti del Signore. “Maledetto il giorno in cui nacqui”, dice Geremia, incorreggibile pessimista. “Me muera yo y escape”, che io muoia purché finisca, diceva spesso mia madre nel suo castellano viejo degli ebrei sefarditi profughi dalla Spagna nel 1500.
Molte di quelle profezie catastrofiche sono mutuate da profezie medio orientali molto più antiche, assire, hittite, babilonesi. E poi sono straripate nei testi apocalittici cristiani, tipo quel misterioso, criptico e magnifico testo che è l’Apocalisse di Giovanni. Il mito del diluvio, o di un grande incendio che consuma l’universo è presente in quasi tutte le culture. Antichi greci e latini evocano continuamente la fine del mondo, o catastrofi iniziali. Lo fanno Anassimandro, il padre della scienza, Senofane, Eraclito, Empedocle e Democrito. Ciascuno alla sua maniera. Platone, nei suoi dialoghi, evoca ben quattro diverse catastrofi che hanno devastato la razza umana. La più famosa è lo sprofondamento di Atlantide. 

“Un solo giorno porterà la catastrofe a mari, terre e cielo”, immagina il materialista epicureo Lucrezio (De rerum natura, 5,92-95). “La massa e la macchina del mondo crolleranno di colpo” (5, 96). “Sprofondando in un fragore terrificante” (5, 109). Non sarà per effetto della potenza divina, né dell’azione dell’uomo, ma di “una forza sconosciuta che tritura tutte le cose umane”. La sua è una goduria poetica. Solo un grandissimo poeta poteva immaginare, duemila anni fa, i buchi neri. La porta (ianua) che non è chiusa né al cielo, né al sole, né alle terre, né ai mari ma li aspetta dalla profondità dell’abisso (spatium profundi) ed “è aperta e li attende con l’enorme e mostruosa bocca spalancata” (patet immani et vasto respectat hiatu). Sulle fini del mondo poetiche di Lucrezio c’è un bel libro fresco di stampa di Ivano Dionigi, L’Apocalisse di Lucrezio. Politica, religione, amore (Cortina 2023). Tutto quello che volete sapere e non avete mai osato chiedere sulle fini del mondo nella letteratura classica lo trovate in Apocalypse and Golden Age: The End of the World in Greek and Roman Thought di Christopher Star (John Hopkins University Press, 2022)
Affascinanti, forse più ancora delle fini del mondo cosmiche, quelle “politiche”, che si trovano in Seneca e Lucano. Nella sua tragedia Tieste, sul tema della malvagità umana, (Tieste è quello che, per vendicarsi di suo fratello, gli cucina e gli serve a tavola i figli) Seneca evoca stelle che si sfracellano, l’universo che va in fiamme. Lucano parla di guerre civili che hanno distrutto le città d’Italia: “case semidistrutte, svuotate di abitanti, rovi che invadono i campi”. Entrambi erano stati consiglieri inascoltati di Nerone (il quale è poi la Bestia dell’Apocalisse). Poi erano stati allontanati. Lo contestavano, ma a loro rischio e pericolo. Vedevano quindi nero per il futuro, a differenza di Virgilio e Orazio, i quali si erano illusi che con Augusto fosse arrivata l’età dell’oro, la fine di tutte le guerre civili, la pace universale. Forse lo credevano davvero, o forse volevano solo compiacere il Principe. Marco Aurelio, nelle sue Meditazioni, non riesce a fare a meno della previsione di un cataclisma cosmico che dovrebbe verificarsi “presto, molto presto”: “Tutto quello che esiste si trasformerà molto in fretta, evaporerà, sarà disperso” (VI, 4). 

I profeti non sono mai stati molto amati. Quelli di sventura meno di altri. Cassandra, i Troiani la volevano linciare. Tiresia, leggendario principe di tutti gli indovini, viene ridicolizzato nella Tebaide dal romano Stazio. Nel Satyricon di Petronio, uno degli spensierati commensali di Trimalcione scherza con l’altro sulle trovate del padrone di casa per stupire i suoi ospiti. Scommette che si tratta di “un modo comico per tirare in ballo una qualche catastrofe”, per ridiculum aliquid catastropha quaeretur (54, 3). Nel contesto il riferimento è evidentemente ad un coup de théâtre, non a una catastrofe vera. Geremia fu odiato dai suoi, le sue lamentazioni sono ancora oggi insopportabili. I suoi scritti vennero bruciati, fu dileggiato, imprigionato, torturato e minacciato di morte. Una possibile interpretazione è che metteva in discussione il potere nella sua Gerusalemme, e la sua politica estera, e poi finì impegolato nelle lotte tra le diverse fazioni del suo popolo durante l’esilio babilonese. Gratta gratta è sempre politica interna, lotta di potere e per il potere. Anche quando pare a prima vista che si tratti di politica estera. Eppure i profeti sono indispensabili. Quando attirano l’attenzione su problemi reali, non solo immaginari. E quando e se fanno intravedere possibili soluzioni.

Nessuna di quelle fini del mondo si verificò. Men che meno quelle date per imminenti o a breve scadenza. Continuarono guerre e guai a non finire. Alla fine sarebbe crollato l’Impero romano. Ce la siamo vista più volte brutta. Ma alla fine ce la siamo cavata. Non è detto che debba finire davvero male. Ma ben venga chi ci ricorda che può succedere e invita a cercare modi per evitarlo. Purché non finisca come nella favola di Pierino che gridava sempre: “Al lupo al lupo”. E quando il lupo arrivò non c’era più nessuno che gli prestasse retta.