Come ritrovare, se fosse ancora possibile, il miracolo della lettura felice
Letteratura, critici e common reader. I libri di Greenham e Vitiello; il primo ci insegna "come leggere", mentre il secondo punta più sull'ispirazione e sull'autobiografia del lettore
Potrei dire di aver passato metà della vita a leggere e l’altra metà a pensare che cos’è la lettura, o meglio che cosa dovrebbe essere. Perché, se si deve leggere male, allora è meglio non leggere, meglio guardare la folla che cammina, gli uccelli in volo, i giochi dei cani, gli alberi, le nuvole, o vedere in tv un bel documentario. Sono perciò cresciuto nell’ultima epoca della storia in cui leggere e saper leggere erano il cuore della cultura, e ora mi risveglio in un mondo nel quale nessuno (cioè un’esigua minoranza) ama leggere, e i libri continuano da decenni a perdere il loro magnetismo, la loro capacità di attrazione e seduzione, il loro valore. Il libro non è più un oggetto di culto. Ma ancora più del libro, era ed è la lettura, il saper leggere la cosa che contava di più, e per gran parte del secolo scorso la stessa critica letteraria è spesso diventata un discorso su come si legge un testo letterario.
Si sono perciò elaborati metodi e tecniche di lettura specializzata nell’attribuire al testo poetico e letterario qualità sommamente specifiche, riassunte nel termine essenzialistico di “letterarietà”. In altri termini e tautologicamente è letteratura ciò che contiene letterarietà e che per questo si distingue “essenzialmente” da ogni altro testo scritto.
Investire sull’identificazione della letterarietà in letteratura non fu un buon affare, anche perché le definizioni generali rendono poco sensibili alla pluralità delle forme letterarie e degli esiti a cui arriva ogni opera. Una teoria o definizione generale di che cosa sono letteratura e poesia mette in ombra, se non abolisce, la prima reale caratteristica della letteratura, e cioè il suo essere un universo pluralistico e polimorfo.
Credere di aver trovato la definizione definitiva di cosa è essenzialmente un testo letterario e come perciò si deve leggerlo, è un abuso pseudoscientifico che impoverisce l’esperienza, le concrete esperienze di lettura. Grandi lettori esplicativi e interpretanti, il cui metodo o tecnica erano in realtà niente di più che la lettura rallentata e la rilettura, sono stati i critici stilistici Leo Spitzer e Erich Auerbach, due ebrei. E in Italia il critico stilistico più dotato, Gianfranco Contini, dichiarò giustamente che nell’esercizio di “qualunque tipo di critica” non dovrebbero esserci “categorie a-priori” quanto invece “canoni empirici” che di volta in volta orientano il critico-lettore nei suoi “esercizi di lettura”.
Ma una cosa è la lettura dello studioso e del docente di letteratura e altra cosa è la lettura del non specialista, del non professionista. In quest’ultimo caso deve essere ipotizzata l’esistenza forse utopica di un “lettore comune”. E’ per questo lettore, in realtà, che non è un tipo ma un insieme variabile di tipi, che gli scrittori scrivono. E la critica letteraria fatta dagli scrittori è la più vicina all’esperienza di lettura del lettore comune che non legge per professione ma per puro interesse personale. Mentre quasi sempre la critica degli studiosi è didattica e si rivolge ad altri studiosi reali o potenziali come gli studenti universitari, la critica degli scrittori è invece un genere letterario, è saggistica personalizzata “secondo gli interessi e le passioni di ciascuno” e senza dimenticare che esiste una “irriducibilità dell’opera letteraria all’atto critico” (parole di Franco Fortini).
La critica dello studioso pretende di esaurire la verità di un’opera, la lettura del common reader è invece per definizione parziale e circostanziale. E’ insomma il contrario della lettura di “chi legge al solo scopo di collocare, il più rapidamente possibile, l’opera in un ordine, in un sistema culturale prestabilito” (Fortini nel saggio “La biblioteca immaginaria”, in Dieci inverni, 1957, ora Quodlibet).
Ma se si mette al primo posto la realtà variabile e incontrollabile del lettore invece che la correttezza metodologico-scientifica dello studioso, allora si arriva presto alla tesi sostenuta da due scrittori come Susan Sontag e Magnus Enzensberger, secondo i quali interpretare univocamente un testo letterario è impoverire l’esperienza di ogni singolo lettore. La lettura, cioè, è un atto anarchico, un’esperienza individuale che deve essere lasciata a sé stessa e non metodologicamente disciplinata. Meglio sbagliare e fraintendere che voler ottenere l’interpretazione giusta e definitiva.
Anche nel suo memorabile saggio “Una lettura ben fatta” (in Nessuna passione spenta) George Steiner evoca l’atto di leggere che è stato proprio della nostra tradizione culturale classica. Leggere come leggevano Dante o Montaigne o Cervantes o Leopardi significava far parlare un testo percependone la rete di risonanze culturali. L’ideale di Steiner non è perciò il lettore comune ma il lettore colto. Più si è letto e meglio si legge.
La storia della questione non è finita, perché torna a farci visita, oggi che pochi leggono, con due libri recenti: Close reading di David Greenham (Einaudi) e La lettura felice di Guido Vitiello (il Saggiatore). Mentre il professor Greenham ci fa scuola per l’ennesima volta sul “come leggere” prescrivendoci il rispetto delle sue regole, Vitiello prende la strada opposta: dialoga con Marcel Proust sull’arte di leggere. Nonostante la sua erudizione, Vitiello punta sull’ispirazione e sull’autobiografia del lettore. Perché è in lui che avviene il miracolo della lettura felice, quella per cui le parole diventano più reali delle cose.
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