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Scrivere è un lavoro, che lo si faccia in salotto con gli ospiti o isolati dal mondo

Valentina Berengo

Tutte le abitudini consolidate degli scrittori per “predisporre la propria esistenza di modo da metterlo in atto”, nel libro di Francesco Piccolo

Prima di diventare uno scrittore affermato, Francesco Piccolo è stato uno “studioso di scrittori” nel senso che, proprio con quello che definisce il “rigore nevrotico” tipico della categoria (e già questo lasciava presagire che fosse sulla buona strada), si appuntava su dei fogliettini le abitudini dei suoi consimili seguendo “l’esigenza di fondare una documentazione pratica di come il mestiere di scrivere avesse regole del tutto diverse dalla leggenda del poeta” maledetto. Ne è venuto fuori un piccolo saggio, uscito al tempo per la nascente minimum fax (alla cui fondazione aveva contribuito) e che ora Einaudi ripubblica: Scrivere è un tic. I metodi degli scrittori.

Sono moltissimi gli esempi celeberrimi, da Borges a Rushdie, da Ishiguro a Ken Follet, da Sagan a Calvino, passando per Carver, Flaubert, Eco e moltissimi altri, che Piccolo porta per illustrare quant’è esteso e variegato il panorama di un mestiere, quello di scrivere, che però conserva una caratteristica fondativa: è un lavoro, per quanto particolare, e anche quando si affianca a un’occupazione secondaria (per alcuni considerata primaria, quantomeno in termini di sicurezza economica: Erri De Luca faceva il muratore, Gadda l’ingegnere, Maurensig il rappresentante di computer) come tale necessita di abitudini consolidate. Non basta “accorgersi del proprio talento” ma è indispensabile “predisporre la propria esistenza di modo da metterlo in atto”.

Questo saggio scandaglia esattamente come. E se per ciascuno scrittore gli stratagemmi sono diversi (Duras teneva accanto a sé una bottiglia di whisky, McEwan fa orari d’ufficio, Dickens scriveva in salotto scambiando due parole con gli ospiti vocianti), per tutti vale lo stesso imperativo: “Scrivere per mestiere significa dedicare alla scrittura il maggiore tempo possibile, e lasciare alla creatività uno spazio mentale dominante”. Chi lo fa a casa, tassativamente, e chi al bar; chi usando la penna o la macchina da scrivere e chi stregato dal computer (“è masturbatorio” dice Calvino); chi dandosi un ritmo inappellabile e chi assicurandosi di non terminare l’idea ma di potersi traghettare al giorno successivo senza dover ricominciare ma “soltanto continuare”, come Hemingway (e Piccolo stesso); chi in assoluto segreto per paura del plagio e chi, come Thomas Mann, costringendo la famiglia a sedute serali di lettura ad alta voce; chi isolandosi dal mondo e chi, come Moravia, rispondendo al telefono e rimettendosi poi subito sulla pagina; chi contando le nuove battute vergate di getto e chi riscrivendo fino a perfezionare ogni frase fin da subito: insomma non c’è una ricetta definitiva. “Imparare a scrivere – dice Francesco Piccolo – è una educazione alla quotidianità; ha bisogno di costanza, cura, pazienza, senso critico, fatica leggerezza; tutte cose che servono per coltivare un hobby o lavorare in banca, a far durare una relazione d’amore, cucinare e fare sport […]”. Si tratta in ogni caso di metodo, se così lo può definire, e “ogni metodo è un mattone di un metodo più grande, quello per vivere”.

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