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Riflessioni

Meritarsi ancora gli eroi del D-Day che combatterono per la nostra libertà

Maurizio Crippa

Domani è l’ottantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, la più grande battaglia in difesa della libertà. Ma il ricordo sbiadisce e l’Europa non ne comprende più il valore. Invece è urgente riscoprirlo 

“Earn this… earn it”. (Il capitano John Miller a James Ryan, “Saving Private Ryan”, 1998)

Meritarsi quel sacrificio. Meritarsi, ancora oggi noi, l’eroismo di quei soldati che hanno combattuto per la nostra libertà. Gli avevano dato una colazione abbondante, uova, salsicce, caffè e bacon. Chi non aveva lo stomaco chiuso come un pugno, chi non aveva già ingollato sorsate di whisky, ultimo presidio del coraggio. Sulle navi avevano giocato a poker e a dadi tutta la notte, chi non aveva pregato. Il sergente Roy Stevens della Compagnia A, 116° Fanteria, ricordò: “Non importava vincere o perdere, sapevi che probabilmente non avresti più avuto l’opportunità di vincere di nuovo il denaro perso”. Poche ore dopo, nell’alba grigia del 6 giugno 1944, tremila di quei soldati erano già morti, la metà prima ancora di toccare le spiagge battezzate Omaha, Utah

Ragazzi di diciotto anni, molti “non erano neanche mai andati al mare e solamente l’estate prima si erano diplomati”. Erano 156 mila, 73 mila britannici e canadesi:  tre divisioni sulle spiagge denominate Sword, Juno e Gold. E 59 mila americani. Il D-Day dell’Operazione Overlord, l’onnipotente: 24 mila paracadutisti, 6.480 navi da guerra e da sbarco e navi ospedali, 2.000 carri armati. E dietro di loro 56 mila marinai, 12 mila veicoli e migliaia di aerei e mezzi della logistica. Entro la sera del “giorno più lungo”, il nome che gli diede Rommel, migliaia di quei giovani soldati erano morti, feriti, dispersi. Quasi diecimila, il totale dello sbarco. 
Domani, 6 giugno 2024, la cerimonia internazionale per commemorare l’ottantesimo anniversario dello Sbarco in Normandia avrà luogo a Saint-Laurent-sur-Mer, il comune di Omaha Beach.  Con Emmanuel Macron ci saranno Joe Biden, re Carlo III, il presidente italiano Sergio Mattarella. Ci sarà Volodymyr Zelensky, che combatte da due anni contro la tirannia, ma all’orizzonte sbarchi alleati non ne vede. Putin e i suoi accoliti invece non sono stati invitati: è una cerimonia per ricordare l’eroismo che ha difeso le democrazie contro i dittatori.

Sulle tv francesi, americane, inglesi (in Italia fortunatamente c’è Alberto Angela) abbiamo visto i volti e le immagini degli ultimi sopravvissuti, ormai centenari. I veterani che una volta ancora non hanno voluto mancare, per se stessi e per tutte le “band of brothers” che quel giorno si sacrificarono. Nessuno di coloro che presero parte al più grande assalto marittimo della storia lo avrebbe mai dimenticato. Le televisioni inglesi hanno offerto documentari potenti, come D-Day: Secrets of the Frontline Heroes di Channel 4, dedicato ai fotografi e cineoperatori che documentarono quei “fateful summer days”. La Bbc con D-Day 80: We Were There ha ricordato i veterani; The forgotten heroes of D-Day racconta la storia misconosciuta dei soldati americani di colore che parteciparono allo sbarco. Eppure, ha scritto il Guardian, “una sorta di amnesia sociale inevitabilmente si approfondisce con ogni nuova generazione”. Un sondaggio nel Regno Unito ha rilevato che “meno della metà degli adulti di età compresa tra 18 e 34 anni sapeva che il termine D-Day si riferiva all’invasione alleata”. Nessuna conoscenza, nessun ricordo socializzato: “Anche se forse la maggior parte dei britannici avrà sentito parlare di Omaha Beach, probabilmente farà fatica a ricordare Gold e Sword, le due spiagge assegnate alle forze britanniche, e Juno, assegnata ai canadesi”.

Scrive il giornale: “Un ulteriore colpo alla nostra memoria collettiva è che quasi tutti coloro che hanno sfidato la terrificante potenza delle difese tedesche ora sono morti”. Ma se questo è inevitabile, conservare invece il significato di quell’impresa (“earn it”) dovrebbe essere l’obiettivo comune. Il Guardian ha realizzato una magnifica intervista a uno dei pochi veterani che saranno presenti, Charles Norman Shay, che prestò servizio medico nella prima ondata sulla spiaggia di Omaha. Nativo americano della nazione Penobscot, Shay aveva 19 anni. Ora vive a Bretteville-l’Orgueilleuse, un villaggio della Normandia vicino ai luoghi dello sbarco. “Chiunque riuscisse a raggiungere la riva si imbatteva nella visione infernale della sofferenza umana, con arti staccati, teste frantumate e corpi senza vita che giacevano sulla sabbia”. Per la maggior parte dei soldati quel giorno era la prima volta in battaglia: “Condizione nera: è un termine militare usato per descrivere il tipo di terrore immobilizzante che colpì molti soldati quella mattina”.
Non stiamo solo perdendo la memoria, tre generazioni dopo la “condizione nera” è che è divenuto quasi impossibile immaginare, darsi ragione di quei fatti. La mole di celebrazioni e documentari di questo ottantesimo anniversario, sembra spiegarci il Guardian, è l’estremo riparo contro l’oblio, il tentativo di afferrare ancora un linguaggio di cui si è perso il senso. Lo Sbarco fu una sfida e una decisione collettiva così gigantesca, così difficile da pianificare, che già allora, per chi la visse, risultava quasi impossibile da comprendere e raccontare. Oggi ci sembra ancor più incomprensibile l’idea che quasi mezzo milione di uomini fossero pronti a rischiare la vita per liberare l’Europa dal nazismo.

“Operazione Overlord”, un’impresa di grandezza biblica e un nome che oggi a qualcuno darebbe persino fastidio. Il ricordo visivo dello sbarco è in quelle undici fotografie di Robert Capa, le uniche che si salvarono da uno sciagurato pasticcio tecnico che distrusse gli altri rullini, quasi una premonizione, e nelle poche altre immagini in bianco e nero scattate da colleghi e soldati. Memoria sfocata. Steven Spielberg, che della Storia e della Memoria ha un vero culto, con le prime sequenze di  “Salvate il soldato Ryan” ha voluto fissare una ricostruzione filologica, vedere quello che hanno visto loro, attraverso cui le nuove generazioni potessero fissare nella mente il significato di un evento che sta scomparendo come una dissolvenza. Sarebbe capace l’Europa di oggi di ripetere una sfida simile, un sacrificio così? Ora che la guerra per decenni scacciata  dal nostro orizzonte di pensiero è tornata a riaffacciarsi ai confini? Il grande tema di questo D-Day 2024 è questo, non soltanto il ricordo. 
Sono riflessioni che si preferiscono non approfondire. C’è stata la guerra al terrore, c’è stata la Siria, da due anni un’invasione con intenti di conquista non diversi da quelli del Reich è penetrata in Europa, persino il Papa parla da anni di guerra mondiale a pezzi, ma il dibattito politico e un’opinione mediatica che sembra maggioritaria preferisce le certezze comode post Guerra fredda, la dogmatica costituzionale spinta fino al Cencelli delle armi ma solo fino a qui, il cinismo ambiguo del disarmo invocato solo per i deboli, fino al ripudio ideologico della Nato. Tutto questo viene da una storia lunga quasi un secolo e fatta – ovviamente – anche di buone idee e frutto di cambiamenti d’epoca incontrovertibili. Ma forse il D-Day degli ultimi eroi può essere lo spunto per nuove riflessioni. Uno stimolo in questo senso viene da un libro dello storico Marco Mondini per il Mulino, in uscita in questi giorni, Il ritorno della guerra. Combattere, uccidere e morire in Italia 1861-2023, che racconta il grande cambiamento della nostra mentalità (molte considerazioni sono estensibili ad altri paesi) rispetto alla guerra e al suo allontanamento dai nostri pensieri. Ne ha parlato nei giorni scorsi sul Corriere Paolo Mieli, che del lungo excursus del libro si concentra sulla parte più attuale, che descrive il momento in cui la guerra nella nostra società è stata “collocata in una dimensione remota”, in virtù di una “svolta antimilitarista” che inizia alla fine degli anni Cinquanta e che ha una serie di concause differenti.

A partire dallo choc postbellico e dal trauma globale della Bomba. Ma Mondini ricostruisce che fino alla metà degli anni Cinquanta i presidenti della Repubblica e i capi di governo “si arrampicavano” fino al Sacrario di Redipuglia, contornati da folle di popolo, in un mai interrotto omaggio alla patria servita in armi. Il casus (im)belli, racconta, è l’eccidio nel 1961 a Kindu, in Congo belga, di 13 aviatori italiani in missione Onu. Il governo pensò di onorarli con un sacrario, ma i tempi erano cambiati, De Gasperi non c’era più, dal “democristiano anomalo” Gronchi a Fanfani educato nella pattuglia dossettiana la stella polare era il neutralismo venato di pacifismo, per non parlare dell’ideologia anti Nato del Pci. Opposizioni di destra e sinistra bollarono l’eccidio addirittura “come simbolo degli errori dell’Europa colonialista”. Del resto l’Italia era uscita sconfitta dalla guerra, l’alleanza con gli ex nemici poteva essere accettata ma non sbandierata, meglio mantenere un profilo da paese in sostanza smilitarizzato. Durante la campagna d’Italia gli americani hanno perduto 32 mila uomini e le forze britanniche oltre 45 mila: sarà un caso che questo sacrificio sia in sostanza dimenticato, quasi come i cimiteri di guerra che segnano l’intera penisola?
In quegli anni prende piede l’antimilitarismo di un filosofo e attivista come Aldo Capitini (la prima Marcia per la pace di Assisi è del 1961), del 1963 è la Pacem in Terris di Giovanni XXIII che segna una svolta storica nella visione cattolica. Anche se, come ha notato lo storico Daniele Menozzi, il percorso della Chiesa verso “una delegittimazione teologica dei conflitti” è stato lungo e non privo di ambivalenze e ripensamenti: basti notare che la tradizionale dottrina della guerra giusta è diventata, con Giovanni Paolo II, dottrina dell’ingerenza umanitaria. Accanto al pacifismo cattolico ha contato il movimento pannelliano per l’obiezione di coscienza. Tutto questo è andato saldandosi negli anni Settanta, scrive Mieli, con “un nuovo senso comune della sinistra antiamericana e terzomondista nel solco aperto del pacifismo filosovietico”. Così che, dice Mondini, siamo diventati “figli di una cultura demilitarizzata che ha progressivamente rimosso armi e battaglie dall’orizzonte del visibile e del pensabile”.
Non basta certo il solo scenario politico e filosofico a spiegare quel tabù della guerra tanto forte da resistere anche alle evidenze di un ordine mondiale a pezzi e minacciato. Il pregiudizio in base a cui ogni investimento per la difesa nazionale equivale a una scelta aggressiva è incistato in profondità. E’ vero, invece, che sono cambiate le società con una crescita assoluta del valore della sfera personale, lo stesso concetto di esercito di leva non ci appartiene più. Nella guerra moderna gli eserciti popolari di massa non servono più, tranne a qualche dittatore carnefice, ma anche il professionismo militare ha sempre bisogno delle cornici del peacekeeping.

La stessa America ha subito il trauma del Vietnam, una guerra sentita come coloniale. Il  veterano Shay viveva in una riserva nel Maine e non aveva il diritto di voto, ma non ritenne insensato rischiare la vita per la libertà dei francesi. Vent’anni dopo Muhammad Alì finì in carcere per aver affermato una logica opposta: “No vietcong ever called me nigger”. La delegittimazione delle guerre riguarda tutto l’occidente, le bodybag pesano, come per la guerra in Iraq, e decidono le elezioni. La morte in guerra non ha più niente di eroico, è roba per gli shahid o per le orde di carne da cannone cecene e russe. Ma c’è qualcosa di diverso, una distanza impossibile da colmare, anche tra la Great Generation americana che vinse la Seconda guerra mondiale e le generazioni di oggi. Con la sua ironia aspra da gentiluomo di ventura abituato a vedere tutto, Robert Capa annota i momenti sui mezzi da sbarco: “Alcuni ragazzi vomitavano educatamente nei sacchi di carta e allora mi resi conto che si trattava di un’invasione civile”. Civile, educata. C’è una profonda verità in quelle parole buttate lì a controcanto, come per scacciare la disperazione. Erano ragazzi, non mercenari, portavano con sé una civilizzazione imparata dentro casa. Facevano la guerra, rischiavano di morire non per odio selvaggio ma per un’educazione ricevuta, la consapevolezza di chi sa per cosa combatte, appresa a scuola o in famiglia.  Qual è la grande differenza? Lo storico Andrea Graziosi ne coglie immediatamente una: “Quell’America era allora la nostra Europa di scorta. Era la terra dei nostri valori, i valori di libertà che qui erano stati sconfitti o abbandonati. Ma là vivevano. Quei ragazzi americani sentivano che le spiagge di Normandia erano qualcosa che apparteneva anche a loro. E lo stesso vale per gli inglesi – e i canadesi, e gli australiani. La differenza con l’oggi è duplice: innanzitutto che nemmeno l’America è più quella, anche solo per demografia etnica. Non sono più europei.  E noi che non possiamo più stare ad aspettare la nostra Europa di scorta”. Stefano Ceccanti, politologo che in questi anni si è molto dedicato al tema di un necessario recupero del valore per le democrazie della guerra giusta – suo il recupero del pensiero del filosofo Emmanuel Mounier, I cristiani e la pace, contro un certo pensiero cattolico più imbelle che pacificatore  – ragiona invece su un altro aspetto: “E’ anche vero – dice – che le democrazie non hanno mai amato le guerre, le invasioni. Nelle guerre sono state sempre trascinate dai regimi autoritari. Questo vale anche per gli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. Roosevelt non sapeva come convincere gli americani a entrare in guerra e ci riuscì solo dopo Pearl Harbor e grazie alla sua capacità di scatenare un’onda emotiva. Le democrazie non amano le guerre, ma forse è proprio questa riluttanza che poi le rende più forti e resilienti quando sono costrette a intervenire”. 

Di quell’antica sofferenza, di quell’enorme non calcolare il costo – e il costo era la vita – che gli ultimi testimoni ancora raccontano è rimasto qualcosa di più di qualche foto sbiadita? Vale la pena pensare di sì, è il pensiero di Ceccanti. Bisogna però tenere presente altre due premesse, spiega Graziosi: “La prima è la questione atomica, che ha cambiato per sempre la concezione e la misura della guerra”. Graziosi è storico dell’Europa orientale, grande conoscitore appassionato della questione ucraina. Ma spiega: “Comunque la si pensi, sul tema della guerra di resistenza che l’Ucraina combatte contro la Russia pesa il tema dell’arsenale atomico. Nessun politico può tralasciarlo, fa parte della coscienza di tutti. In Normandia questo ancora non esisteva, la dimensione per quanto gigantesca di quella sfida era di qualità differente”. Nessuno in occidente, o almeno da questa parte dell’Atlantico e della Manica, ha più quella cultura. Il concetto di eroismo per la patria vale per l’Ucraina (e infatti sono accusati di nazionalismo), vale per Israele, democrazia armata, ma con un credito sempre più ridotto e un discredito internazionale feroce. Eppure, come scrive Paolo Mieli, “ora che la guerra è di nuovo tra noi e riempie le nostre menti ogni giorno di più” sarà necessario tornare a domandarsi che cosa pensarne, prima ancora di cosa fare. I solchi da scandagliare sono profondi. Riflette ancora Graziosi: “La differenza per l’Italia e per tutti gli altri paesi – tranne la Gran Bretagna e in parte la Francia col suo nazionalismo – è che l’Europa sconta ancora il trauma della sconfitta. Tutte le capitali furono espugnate, gli eserciti sconfitti. I nostri paesi hanno subìto occupazioni. Per noi il D-Day o la campagna d’Italia sono stati una umiliazione, e ancora più per la Germania. L’Europa non ha superato l’evento post traumatico. Per questo rifiutiamo la guerra”. 
Nel suo Storia naturale della distruzione W. G. Sebald ha indagato con acutezza su come il senso di colpa dei tedeschi abbia loro impedito per decenni di guardare le proprie stesse rovine e di fare i conti con la propria storia. In Italia le cose non hanno mai la statura della tragedia, ma essersi ritagliati una posizione da stato cuscinetto non belligerante è diventata la grande ideologia dell’unità nazionale. Che cosa può insegnarci invece il D-Day, che cosa salvare del soldato Shay, che la sua vita e la sua libertà se l’è meritate? Può insegnarci, Graziosi si concede un po’ di ottimismo storico, “che l’Europa negli ultimi anni sta iniziando a guarire dal suo evento post traumatico e sta prendendo coscienza di non avere più un’Europa di scorta di là dall’oceano. Ora può cominciare a pensare, e deve farlo, che difendere la libertà è giusto e necessario anche quando può esigere un prezzo alto”. Uno sforzo doloroso, che richiede di dissodare pensieri e sentimenti che sessant’anni di Give peace a chance hanno demolito. “Earn this… earn it”.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"