distruzioni esistenziali
Dopo la catastrofe e l'annichilimento. Cosa significa vivere da sopravvissuti
"Storia naturale della distruzione" (Adelphi) dello scrittore tedesco W. G. Sebald considera il percepirsi dissolubili e frammentari una disposizione naturale, e la distruzione un puro bisogno di annullare sè stessi
Cosa significa vivere da sopravvissuti? Come ricomporre le macerie, l’infranto? Non si cammina frettolosamente, fra le rovine, e non si fa rumore, soprattutto perché ci si pone in ascolto di coloro che non ci sono più, mentre si ha l’impressione di dissolversi nei tumuli. Le rovine, infatti, non suscitano solo il ricordo di ciò che è stato, ma anche lo obnubilano, mentre evocano quel comune sentimento della catastrofe che si avverte con maggior forza di fronte a fenomeni naturali estremi e durante una guerra. In Storia naturale della distruzione, ora di nuovo in libreria per Adelphi, lo scrittore tedesco W. G. Sebald considera il percepirsi dissolubili e frammentari una disposizione naturale, e la distruzione un puro bisogno di annientamento, senza altri fini che sé stesso, in ciò simile alla violenza delle catastrofi naturali.
A Ernst Jünger, scrittore controverso che visse in prima persona l’esperienza bellica, fu rimproverata l’esaltazione estetizzante della guerra e del suo potere di forgiare uomini nuovi e fortificati. Sebald spalanca gli occhi sulla profondità dell’orrore della Seconda guerra mondiale e restituisce l’annichilimento e lo sradicamento del popolo tedesco, che, se da un lato “si era dato come obiettivo quello di ripulire e igienizzare l’Europa – doveva far fronte adesso all’angoscia montante di essersi trasformato, proprio lui, nel popolo dei ratti”.
La distruzione di Amburgo del 1943 (Operazione Gomorrah), quella di Dresda e delle altre città tedesche a opera degli Alleati non hanno fatto presa sulla coscienza collettiva, non solo perché la punizione che colpiva i tedeschi colpevoli dei crimini mostruosi del nazismo era attesa, richiesta, come mostrava Primo Levi, dai “sommersi” come dai “salvati”, ma anche a causa della “cenere” che le rovine porgono ai superstiti come un monito. Siamo questa lacerazione che inghiotte ruderi. Così ci inabissiamo nella cenere, e il rischio è di non vedere più alcunché.
Chi, se non lo scrittore, ha la responsabilità e il dovere di testimoniare ciò che è stato, soprattutto quando il linguaggio incespica, diviene un’arma spuntata? Va notato che il tema delle conferenze tenute a Zurigo nel 1997 e raccolte in questo libro è “Guerra aerea e letteratura”. Lo scrittore, per Sebald, somiglia a un angelo malinconico, simile all’angelo della storia di Walter Benjamin, che ha ai suoi piedi cumuli di rovine e che “vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto”.
Negli Anelli di Saturno, la studiosa Janine appare come l’angelo della melanconia di Dürer, “immobile in mezzo agli strumenti della distruzione”. Talvolta, l’inabissamento sembra ineluttabile, calamitato da forze invisibili; talaltra, “il fantasma della memoria” ossessiona.
Ma ciò che è stato, è stato veramente o è accaduto come in un film espressionista, denso di ombre? Di fronte alla medesima fotografia, non scorgiamo lo stesso: essa acquista via via un’aura perturbante di colpevolezza, gli scomparsi chiedono una catarsi. L’autore di Austerlitz, che fa sapiente uso delle immagini, ci pone di fronte alle atrocità della guerra, come la vista di una madre che porta in una valigia il cadavere del figlio. Viandante fra le rovine, scava nella capacità di sopportazione e di “trasmigrazione interna”.
Che cosa allucina lo sguardo di Robert Walser, la cui prosa svapora a ogni frase, come coglie Sebald in un memorabile saggio? All’autore de Il passeggiatore solitario, che era affascinato dalle coincidenze, non sfugge il racconto che fa Carl Seelig di un’escursione con Walser, proprio la notte della vigilia del bombardamento di Amburgo.