La recensione
L'Opera senza nome che fa da guida nell'infinito mondo di Roberto Calasso
Il libro postumo, pubblicato da Adelphi, affronta la figura dello scrittore ergendosi anche a vero testamento intellettuale
Che paura i biografi. “Uno dei momenti più angosciosi per lo scrittore è quando comincia a profilarsi l’ombra del biografo. Non c’è modo di sfuggire a quell’ombra, se non parzialmente”. Lo scrive Roberto Calasso in Opera senza nome, pubblicato, ça va sans dire, da Adelphi. E così Calasso, editore di un’intelligenza ineguagliabile, ha lasciato postumo questo libro che parlasse del proprio lavoro di scrittore. Calasso ci ha lasciato nell’estate del 2021, ma continua a deliziarci con alcuni libri custoditi in quella che si immagina una cassaforte salingeriana.
Nel 1983, a dieci anni dal suo esordio narrativo pubblicava La rovina di Kasch. Era il primo mattone – nonché la chiave di volta – di una lunga opera che si è conclusa nel 2020 con La tavoletta dei destini. In mezzo, gli altri pezzi, volumi su Kafka e Baudelaire, sulla Bibbia e sui Veda, sui miti greci e sul sacrificio, su tutto ciò che gli stava a cuore e che secondo lui poteva spiegare il mondo, anche oltre il sensibile. Migliaia di pagine che messe tutte insieme contengono una discreta parte della saggezza universale. Chi meglio dell’autore stesso quindi per analizzare i frutti cartacei del suo studio, della sua curiosità, della sua saggezza? Opera senza nome diventa così sia una guida a questi lavori – L’ardore, Ka, K…, libri che nascono sopra un treno indiano, o al ritorno da un viaggio in Grecia – sia un testamento intellettuale che inizia con: “se provo a pensare a quello che ho fatto, devo dire che certamente non sapevo mai quale sarebbe stato il prossimo passo”.
Tra le cose che vengono fuori due in particolare mostrano la chiaroveggenza e l’originalità di Calasso. La prima è l’uso delle immagini in mezzo al testo in libri semi narrativi, ora diventata una pratica modaiola resa celebre da W. G. Sebald (autore cult tra i millennial). E qui viene fuori che fu proprio Calasso a ispirare lo scrittore tedesco. Sebald “mi disse, con slancio, che l’idea delle immagini sparse nei suoi libri qualcosa o molto doveva a quell’edizione de L’impuro folle”, scrive. La seconda cosa che notiamo è come l’autore-editore abbia sempre giocato sfidando e confondendo il confine tra fiction e non-fiction, etichette da libraio che Calasso ha combattuto fin dall’inizio, anche prima che ci fossero i dibattiti sull’autofiction o l’esaltazione della literary non-fiction. Con La rovina di Kasch era apparso qualcosa che ha anticipato – o forse anche qui, ispirato – i trend degli anni dieci e venti di questo secolo. La rovina di Kasch, per usare una parola del suo mentore Bobi Bazlen, mitico fondatore di Adelphi, può aspirare alla “primavoltità”.
Se ne fa beffe qui Calasso del modo in cui definiamo i libri, ricordando la stupidità delle categorizzazioni che fanno perdere il senso dell’unità dell’opera. Amazon aveva “categorizzato Le nozze di Cadmo e Armonia come ‘accessori decorativi per la casa’ e L’innominabile attuale come ‘decorazioni per unghie”, scrive. Ma Calasso sa anche che sfuggire dai biografi è impossibile, anche perché : “I libri – e in particolare i libri sui libri – hanno una caparbia volontà propria, che va oltre i propri autori”.