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Il carnefice Max

L'umorismo yiddish unica resistenza contro la barbarie antisemita, ora come allora

Michele Magno

Le barzellette politiche divennero reati perseguibili penalmente; raccontarle o anche semplicemente ascoltarle costituiva un atto di di coraggio che poteva però costare caro. Torna in libreria “Il nazista e il barbiere” di Edgar Hilsenrath

Molti intellettuali, da Walter Mehring a Heinrich Mann, da Bertolt Brecht a Charlie Chaplin e Ernst Lubitsch, già negli anni Trenta del “secolo breve” avevano puntato le armi della satira contro il movimento delle camicie brune prima, e il regime nazista poi. Altri, che pure della satira erano maestri, ammutolirono di fronte all’ascesa di Hitler, ammettendo la sconfitta della loro arte. Karl Kraus si accomiatò dai suoi lettori nell’ottobre del 1933 con versi che, dalle pagine della sua rivista “Die Fackel” (La Fiaccola), formulavano la scelta del silenzio. Dopo la fine della guerra, Chaplin dichiarò che non avrebbe realizzato “Il grande dittatore” (1940) se fosse venuto a conoscenza dell’incredibile mattanza che stava insanguinando in quegli anni l’Europa. L’umorismo, cioè, non era ammissibile nella rappresentazione della Shoah. Contro Celan, Theodor W. Adorno sostenne l’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz. Era un paradosso, usato per significare che ogni tentativo di descrivere l’orrore dei campi di sterminio ricorrendo all’arte era destinato al fallimento; e che, anzi, lo stesso ricorso all’arte costituiva un’offesa alla memoria delle vittime della “Soluzione finale”. 

Celan si oppose al divieto e creò quella lirica del lamento nel silenzio infinito che è “Todesfuge” (“Fuga di morte”, iniziata nel 1945), rifiutando per anni di incontrare Adorno. Questi riconobbe più tardi la velleità della propria prescrizione. Primo Levi, a sua volta, gli contestò di essere caduto in contraddizione per aver emesso una sentenza di condanna usando però ancora la parola scritta, e ribatté che l’unica poesia possibile su Auschwitz era proprio la poesia di Celan (Enzo Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, il Mulino, 2004).
Eppure nella Germania del Terzo Reich, nell’Austria annessa, nei territori occupati dalla Wehrmacht ed esposti della deportazione e dell’annientamento, l’umorismo aveva assunto il ruolo di strumento – spesso unico – di resistenza all’oppressore. Hitler si dimostrò particolarmente sensibile nei confronti del potere invasivo del “Witz”, della battuta di spirito in grado di spogliare la sua autorità dell’alone mitico di cui si ammantava. Contro un diffuso umorismo popolare che si manifestava nei “Flüsterwitze”, barzellette che venivano sussurrate a voce bassa, spandendo un veleno mortale sulla propaganda del partito, la dirigenza nazionalsocialista combatté su più fronti, ammettendo  implicitamente di trovare nel riso irriverente, demistificante e corrosivo un avversario assai temibile da sconfiggere a ogni costo. Già nel dicembre del 1934 era stata approvata la “Legge contro gli attacchi diffamatori allo Stato e al Partito”, che prevedeva pene pecuniarie e detentive (in galera o nei “rieducativi” campi di concentramento) fino a due anni. Nel mirino del legislatore entrava così chiunque fosse coinvolto, a vario titolo, nella produzione e nella diffusione di affermazioni false e distorte “atte a minare il benessere del Reich, la credibilità del suo governo e delle sue disposizioni, del partito nazionalsocialista e dei suoi dirigenti”. 
 

Le barzellette politiche diventarono così reati perseguibili penalmente; raccontarle o anche semplicemente ascoltarle costituiva un atto di resistenza e di coraggio che poteva però costare caro. I “Flüsterwitze” avevano bersagli diversi e un obiettivo comune. A essere presi di mira erano anzitutto i vertici del partito e del governo: Hitler in testa, seguito da Goering (capo dell’aviazione tedesca) e Goebbels (suo onnipotente ministro della propaganda). I componenti di questo terzetto, ribattezzati dal mordace umorismo popolare rispettivamente come “der Mächtige” (il potente), “der Prächtige” (lo splendido), “der Schmächtige” (il gracilino) si presentavano nelle barzellette da soli o in trio, dialogando magari con altri personaggi di spicco tedeschi o stranieri. Il motto di spirito giocava con i loro umanissimi difetti, beffandosi dell’inestinguibile sete di potere del Führer, della corpulenza di Goering o del suo marcato narcisismo (pare avesse un debole per divise e decorazioni militari), come pure del suo coinvolgimento nell’incendio del Reichstag (marzo 1933). Goebbels era invece al centro di battute per la sua attività menzognera di ministro della propaganda e per le sue famose avventure extra-coniugali, che contrastavano platealmente con la moralità puritana predicata dal regime e per un fisico lontano dai modelli della razza ariana.

Il compito di queste barzellette politiche non era allora più quello di schernire la tirannia, di ridicolizzarla per ridurla – con quel riso sovversivo  che può capovolgere i rapporti di potere – a un nemico meno temibile e, in fin dei conti, vincibile. Esse fungevano piuttosto da risorsa cui attingere per esorcizzare il terrore e arginare il peso schiacciante delle privazioni quotidiane. Nonostante le leggi razziali, il boicottaggio dei negozi, il brutale pogrom ribattezzato dagli aguzzini con il nome romantico di “Kristallnacht” (Notte dei cristalli), la reclusione nei ghetti e nei campi di sterminio, si affinò un umorismo ebraico intriso di speranza e insieme di disperazione, che rispecchiava la caparbia volontà di non arrendersi, di non rinunciare a una scintilla di dignità anche di fronte a una totale disumanizzazione.
Questa capacità di reagire col sorriso alle durezze della vita era il lascito di una precisa realtà storica, sociale e culturale, quella delle comunità orientali degli ebrei ashkenaziti che, nella seconda metà dell’Ottocento, trascorrevano nei villaggi (“shtetlekh”) un’esistenza quotidiana fatta di discriminazioni e persecuzioni, forzatamente isolata rispetto al mondo circostante. E’ in quei villaggi, sulla scia di importanti influenze mistico-religiose derivate dal Chassidismo, che si forma una generosa tradizione di risate sagge, amare e dissacranti persino sui profeti e sull’Altissimo, che rivelavano una vocazione ironico-introspettiva che Freud fu il primo a analizzare.
Subito dopo l’Olocausto, l’umorismo yiddish è quasi costretto a rivedere i suoi stilemi. Le  stesse opere degli scrittori-testimoni sono come sospese tra parola e silenzio. Una condizione angosciosa, denunciata da Primo Levi nell’incipit di Se questo è un uomo, tormentato dall’impossibilità di trovare un linguaggio adeguato per descrivere l’abominio del lager e dalla contemporanea necessità di doverlo raccontare. Più tardi Edgar Hilsenrath, un ebreo nato a Lipsia nel 1926, internato nel ghetto di Cernivci in Bucovina, dopo la liberazione inguaribile giramondo, sfiderà il senso di colpa e la riluttanza dei suoi connazionali a “elaborare il lutto” del passato con un romanzo dalla trama provocatoria, che sovverte i canoni narrativi dello sterminio.

Si intitola Der Nazi & der Friseur, e viene pubblicato nel 1971 dalla casa editrice Doubleday in lingua inglese. Diventa subito un bestseller internazionale (due milioni di copie vendute solo negli Stati Uniti), mentre dovrà attendere sei anni e subire sessanta rifiuti prima che un giovane e coraggioso editore, Helmut Braun, lo faccia conoscere al pubblico tedesco. Tradotto per la prima volta in italiano da Mondadori nel 1973, Il nazista e il barbiere è stato recentemente ristampato da Marcos y Marcos. 
Il suo protagonista, Max Schulz, ci fa sapere di essere nato nella cittadina tedesca di Wieshalle nel 1907, nello stesso giorno in cui, nella casa dei vicini Finkelstein, viene alla luce il piccolo Itzig. Figlio di una donna di facili costumi, Max è incerto sull’esatta identità del padre, ma è sicuro della sua discendenza ariana “purissima”, poiché tanto l’albero genealogico della madre quanto quello dei cinque possibili genitori maschi sono stati accuratamente verificati. Regolarmente violentato sin dalla più tenera infanzia da Slavitzki, il patrigno mostruosamente superdotato, stringe ben presto amicizia con Itzig e frequenta assiduamente la sua abitazione, familiarizzando con le tradizioni religiose degli ebrei praticanti. Quando arriva il momento di imparare un mestiere, i due inseparabili amici iniziano a lavorare nel salone del barbiere Chaim Finkelstein. Con l’avvento al potere dei nazisti l’apparente equilibrio si rompe: Max, che fiuta il vento che cambia, entra a far parte delle SA e poi delle SS, combatte con diligenza nel Secondo conflitto mondiale, partecipa alle esecuzioni di massa degli ebrei nell’Europa orientale e presta servizio nel lager di sterminio di Laubwald, in Polonia, massacrando proprio la famiglia Finkelstein. 
Terminata la guerra, il carnefice torna in Germania e assume l’identità di Itzig. Decide di  lasciare suo paese per rifugiarsi là dove nessuno lo avrebbe mai cercato: in Palestina, tra  gli ebrei della diaspora, diventando un terrorista al servizio della causa sionista e, in seguito, un soldato del neonato esercito israeliano. Il sogno di una tranquilla e “onesta” vita borghese si concretizza con un lavoro come barbiere a Beth David e con il matrimonio con Mira, la nipote del proprietario del salone. Nessuno sospetta del passato di Max, ma le sue vittime non concedono tregua alla sua coscienza: alla fine è lo stesso carnefice a cercare un processo e una giusta condanna, confessando la sua vera identità e i crimini compiuti. Non gli crede nessuno. Colpito da infarto, gli viene trapiantato il cuore di un rabbino, ma non riesce a salvarsi. 
Come sottolinea Cecilia Morelli in un saggio di rara acribia (di cui sono debitrici queste note), non c’è da stupirsi che un romanzo come questo abbia incontrato forti ostilità in Germania (Un riso che turba e disturba: Der Nazi & der Friseur di Edgar Hilsenrath e Mein Kampf di George Tabori. Esempi di grottesco e witz nella letteratura della Shoah, Università di Bergamo, disponibile in pdf). Perché a parlare in prima persona è un “Massenmörder”, un pluriomicida privo di ogni scrupolo morale. Perché, inoltre, il suo timbro grottesco e il suo umorismo nero si prefiggono di scioccare, non di compiacere il lettore. Ad esempio, lo zelo con cui Max  indaga le sue origini allude al metodo elaborato dai nazisti per definire l’identità ariana in base a un vaglio meticoloso degli avi. E’ proprio l’ottusa applicazione di questo metodo a smascherarne l’assurdità, e a trasformare Max in una macchietta che ripete ossessivamente “sicher ist sicher” (la certezza non è mai troppa). Del resto, la demolizione dello stereotipo antisemita è uno dei motivi centrali del romanzo. Tant’è che l’aspetto fisico di Max somiglia a quello dell’ebreo dal naso adunco, mentre Itzig ha le fattezze dell’idealtipo di razza ariana teorizzato da Rudolph Hess.

Nel suo discorso, Hilsenrath si rivolge sia agli innocenti che ai colpevoli. E il suo è un discorso sul problema di fondo che la Shoah ha posto alla civiltà occidentale, ovvero il  problema che Hannah Arendt ha definito la “banalità del male”. Quel che nel romanzo  spiazza è la naturalezza, l’assenza emotiva con cui Max descrive le sue  imprese criminali, la sua carriera di macellaio impietoso. Nondimeno, Hilsenrath non mitiga e non dissimula  l’orrore per il genocidio. Al contrario, con il suo cupo umorismo cerca di renderne più vivida e evidente la portata catastrofica. Ma una maggiore distanza temporale dalla Shoah gli consente di favorire l’ingresso del comico, e delle sue irriverenti risorse critiche, in un campo da sempre considerato sacro e inviolabile. 
Non sono solo testi prettamente letterari a testimoniare una maggiore apertura in questo senso. Basti pensare agli scritti del praghese Maxim Biller, che esplorano con tagliente ironia la convivenza tra ebrei e tedeschi nella Germania riunificata. Si pensi, ancora, al fumetto “Maus” di Art Spiegelman (dove gli ebrei sono topi, i nazisti gatti). Sono espressione di un modo non convenzionale di trattare un argomento delicatissimo come lo sterminio. Infine, il cinema. La “settima arte” (copyright di  Ricciotto Canudo, 1921) ha mostrato un precoce interesse per il “riso scomodo”, suffragato da film come l’acclamato “La vita è bella” di Roberto Benigni (1997) e il forse meno famoso – ma, a giudizio di chi scrive, più bello – “Train de vie”, una coproduzione europea firmata dal regista rumeno Radu Mihaileanu (1998). 
Il successo di queste opere conferma la definitiva legittimazione del ricorso all’umorismo nell’affrontare temi tanto estremi. Non va però neanche sottovalutato il peso rilevante dei dubbi e delle antipatie che esse continuano a incontrare. Novelle, fumetti, film di animazione o film da Oscar sul genocidio che percorrono le vie dell’umorismo sono sempre sottoposti a un doppio controllo. Infatti, insieme alle valutazioni sulla loro qualità artistica, incombe ostinato l’interrogativo moraleggiante che ha segnato tante recensioni del romanzo di Hilsenrath: “Darf man das?” (E’ lecito?). Dopo la carneficina dei miliziani di Hamas del 7 ottobre scorso nei kibbutz israeliani, è molto difficile che la stessa domanda si possa porre entro un ragionevole lasso di tempo. Marx asseriva che la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Si sbagliava: anche la seconda può ripetersi come tragedia. 

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