Le luci rubate
La gioia di Goliarda Sapienza, che è bella da raccontare perché “donna così poco edificante"
Valeria Golino ha portato sullo schermo la scrittrice nel centenario dalla nascita. A essere messo in scena sarà il suo romanzo postumo "L'arte della gioia", il romanzo scritto nel 1976 e pubblicato postumo
"Non c’è niente che possa rallentare / questo certo dissolversi di medusa / aggrappata alla sabbia / lontana dal mare”. Non si può fare a meno di considerare che si vive circondati dalla dissolvenza insistita di cose e persone. “Sapere che tu esisti… / scansando / cauto il vuoto che ti preme”. Siamo noi stessi una lenta dissolvenza. “In attesa dell’eco di frescura / che in un grido si strappa dalla calura”. Stiamo dentro a una sottrazione costante che si porta via pezzi di noi. Rimane imperitura l’arte e l’ancora della memoria.
“L’arte – o la vita, se volete – è così: niente finisce, tutto ritorna in questo eterno presente che ci muove”. E’ Goliarda Sapienza a parlare e a ritornare, stavolta al cinema, poi su Sky e Now, in una serie tv presentata in anteprima a Cannes, prodotta da Sky Studios e diretta da Valeria Golino, che mette in scena “L’arte della gioia”, il romanzo scritto nel 1976 e pubblicato postumo (in prima battuta nel 1998 da Stampa Alternativa), che ha dato riconoscibilità letteraria alla scrittrice, ignorata in vita dagli intellettuali del suo tempo. “Quando tornerò / saranno mute le cose”.
Nel nostro paese l’apprezzamento per questo romanzo – giudicato inizialmente troppo tradizionale, troppo sperimentale, troppo immorale – emerse solo dopo i tanti riconoscimenti all’estero. La Sapienza è andata via prima di saperlo, ma noi sappiamo che la sua opera esiste e resiste. “Hanno muri grossi questi conventi, muri a prova di bomba, per non sentire né i pianti né le gioie del mondo”. Ci sono libri che è opportuno leggere, altri che è piacevole leggere e poi ci sono i libri che devono essere letti perché sarebbe un peccato privare il nostro pensiero della portata della loro compagnia. “Non conoscevo quella strana stanchezza, una stanchezza dolce, piena di brividi che tenevano a galla”.“Mi è piaciuto raccontare una donna così poco edificante”, ha dichiarato Valeria Golino che dietro la macchina da presa ripercorre la vita spericolata di Modesta, una carusa tosta (interpretata da Tecla Insolia) che ama gli uomini, le donne, la vita, nella Sicilia della prima metà del secolo scorso, fino agli anni sessanta. “Io apro solo una strada ancora imperfetta per gli altri che verranno”.
I virgolettati qui e dopo sono di Goliarda Sapienza. “Ogni luce che dal mare si insinua fra le imposte”. Seduzione, erotismo e desiderio di conoscenza. “Afferrati pei capelli e tira su l’animo”. Bisogno di emancipazione e di libertà dalle angustie del proprio tempo, muovono l’esistenza di questa ragazza povera e determinata, “combatte per la sua pazza volontà di vita”. Machiavellica nell’ingegno, la vedremo diventare donna spregiudicata alla conquista “di una gioia di luci rubate al buio”, di uno spazio di respiro, nel senso più ampio del termine. “E finalmente nuda – quanto era che non sentivo il mio corpo nudo? Ritrovo la mia carne”.
L’arte della gioia è un palcoscenico di figure avvincenti che si fanno specchio di un mondo che non è poi così lontano. “L’allegrezza come il pane di tutti ha da essere”. E’ un libro per chi possiede la pazienza del cammino fra le pagine di un testo complesso nella struttura, fatta di sovrapposizioni di diversi registri linguistici, dove l’io narrante è prima persona ma anche terza, in una sorta di esercizio di osservazione del sé da dentro e da fuori. Una storia che pur nella coralità dei personaggi che la muovono, è quasi silenziosa, intima, sembra di stare davanti a un camino, con un plaid sulle gambe e la sera alla finestra, mentre le parole dicono la storia dei protagonisti in un tempo che fu anche nostro. “Non ero abituata a camminare senza un muro che marcasse i confini col mondo esterno”. Il premio, dopo la camminata di circa seicento pagine, è una costellazione di fiammelle che sapranno farsi guida lungo la strada della nostra quotidianità. “Il male sta nei significati snaturati”. C’è molta vita che scorre in questo romanzo, “malgrado me stessa mi trovo ad avanzare”, molta vita da imparare, passo dopo passo, molte storie dentro cui guardare. “Mi avvertiva di stare in guardia da me stessa e correre al sole”.
Nata cento anni fa a Catania, e si è già detto che questo è l’anno di molti centenari. Morta nel 96 a Gaeta. Metà sicula e metà lombarda. “Quei suoni scordati / che da tempo / viaggiano al mio fianco e fanno denso / il respiro, melmosa la lingua”. Ha vissuto in una Roma “confortevole e zuccherosa”, e a Gaeta, “dove il mare c’è anche se non si vede”. La Sapienza appartiene a una famiglia di socialisti rivoluzionari. Educata e cresciuta in modo sui generis. La sua è una formazione famigliare in senso stretto. “Dovevo studiare me stessa e gli altri come si studia la grammatica”. Il padre Giuseppe, avvocato, preferì non farle frequentare la scuola per timore che la figlia fosse influenzata dalle ideologie dell’epoca.
“Il meglio ti può venire dal cantone più buio dove non hai mai guardato”. La Sapienza era incline all’attenzione verso l’umanità che le si muoveva intorno, a quegli altri, tutti gli altri, senza i quali diceva di non potere vivere, “lungo la stretta ombra dei muri”.
I genitori erano entrambi vedovi e con figli, per un totale di dieci. “Pace di pietra / ti ritrovo alla svolta del muro / sotto l’ombra del fico / velenosa”. Il nome Goliarda le viene da uno dei fratellastri, morto affogato, forse per mano della mafia. Una famiglia numerosa che si disgrega dopo la morte dei genitori. “Era chiaro che una parte di me sempre a loro sarebbe appartenuta”.
Appassionata e forsennata nello sguardo. “Un ritornare / agli stessi crocicchi della notte”. Trepidante nell’animo. “Assediati giochiamo a dadi”. La voce arrochita dal troppo fumo. Cordiale e materna. Critica e sprezzante, anche. “Giro nel vuoto / di ricordi murati a calce viva”. Goliarda Sapienza era anche una brava cuoca, pare avesse ereditato il talento dalla madre, la sindacalista Maria Giudice, la prima donna a dirigere la Camera del Lavoro di Torino, la leonessa del socialismo italiano che, “tra una rivolta di contadini e un comizio, non disdegnava di preparare ricchi pranzetti”. La Giudice sosteneva che l’arte potesse contribuire alla rivoluzione come e più dell’azione politica. “Discernere nel cadere della sera / questa sera da ieri / da domani”.
Sembra che madre e figlia fossero il paradiso l’una dell’altra. Anche se esistono paradisi che non sono sempre e soltanto un luogo di delizie. “Un altro giorno s’annega all’orizzonte”. Alcuni paradisi implicano la sofferenza della struttura, quella genitoriale, per esempio, che ci forma e ci deforma. “Un giorno gridò rivolto al mare / Quel grido saldò le mie giunture”.
Nei primi decenni del dopoguerra, Goliarda Sapienza fu attrice in diversi ruoli e per diversi registi. Figura anche nel “Senso” di Luchino Visconti. “L’insensato cadere dei colori / la chiave di una vita che dura / solo dodici ore”. Più che attrice, le piaceva definirsi cinematografara. Ha interpretato se stessa in un docufilm a lei dedicato, diretto da Paolo Franchi. “E se appena tremi o ti oscuri, avrai perduto”. Ha insegnato recitazione a Roma, al Centro Sperimentale di Cinematografia. “Si schiudono le porte / senza rumore / si staccano i tuoi passi / dal mio fianco”. Oggi è considerata una scrittrice fra le più significative del novecento. “Non tremare / La pioggia non può tardare”. Il suo primo romanzo è del 1967 (“Lettera aperta”, e rientra in un ciclo di cinque romanzi autobiografici, alcuni dei quali sono stati di recente pubblicati da La Nave di Teseo).
“Come potevo saperlo se la vita non me lo diceva?”. Fuori da ogni contesto. La sua è stata un’esistenza di grande valenza drammaturgica. Poliedrica e complessa nell’arte e nella vita. Ha tentato due volte il suicidio, “un giorno dubitai / e in piena luce / cominciai / a vedere l’albero / il pane / il coltello e la forbice / il legno / il rame”. E’ stata in manicomio, in analisi e in galera per qualche mese per avere rubato dei gioielli a un’amica, venduti poi in un banco dei pegni. “Ho paura / di svegliarmi col sole che scantona / dietro l’angolo buio della casa”. Pare che dietro questo gesto ci fossero una serie di motivi (umiliazione, ristrettezza economica, voglia di provare che effetto fanno le sbarre di una cella), poco chiari anche a lei stessa, stando a chi l’ha conosciuta. “Mi ha preso una corda pazza, come capita a noi siciliani”. Di questo periodo, 1980, è il testo “L’università di Rebibbia” e “Le certezze del dubbio”. “Poi viene la grande calma della trincea, del fango, della polvere”.
Pare che da carcerata si sia sentita più accettata che da libera, “sono tornata a vivere in una piccola comunità dove le proprie azioni vengono seguite, e approvate quando giuste, insomma, riconosciute”.
A partire dal 1947, per circa diciotto anni, visse una storia col regista Citto Maselli, divenuto in seguito un caro amico, fu lui a indirizzarla verso la scrittura. “Ho pensato molto a te in questi giorni. Vorrei tanto parlarti e stare serena, vicina a te”. Sposò l’attore e scrittore Angelo Pellegrino, che ha curato la gran parte delle sue opere, pressappoco con tutte le sue opere è come trovarsi ogni volta a salvare carichi che erano già affondati, ha scritto Pellegrino nell’introduzione di uno dei testi della moglie.
“Visto che ci intendiamo malgrado tutte queste lingue, se vuoi farmi delle domande, dato che non sai niente di me, chiedi e io ti risponderò inventando, cercando di trarre dalle cento verità banali della mia vita, quelle che più si avvicinano alla verità vera di essa”. (Così scriveva nel 1960 alla moglie di Nazim Hikmet).
“Senza memoria di onde / nel fondo del mare”. Goliarda Sapienza aveva l’abitudine di leggere i suoi testi in fieri a una cara amica e al portiere del palazzo in cui viveva. Nella sua scrittura c’è il bisogno di fare chiarezza, prima di tutto con se stessa, di dare forma ai pensieri e ai sentimenti. Il suo è un confronto costante fra luce e buio, visibile e invisibile. Dentro e fuori. “Se sapessi il tuo viso, se potessi / riconoscerti ancora forse saprei / ritrovare quel senso che mi muore”.
Noi qui abbiamo tenuto conto anche della Sapienza poeta, forse meno nota ai più. “Un’altra attesa / serpeggia fra il canneto”. Tutti i versi citati appartengono alla sua raccolta “Ancestrale”, un testo degli anni cinquanta, edito da La Vita Felice nel 2013. “Non avrei mai creduto che la figlia di Maria Giudice potesse scrivere poesie come una qualsiasi figlia di famiglia borghese”.
La Sapienza poetessa ha una sorta di pudore che la narratrice pare non avere. “Senza tregua sbattevo per rinascere”. Tuttavia la poesia la denuda, suo malgrado, perché è così che spesso fa la poesia. “E’ predisposto / da tempo / il tuo tornare al mio / pozzo d’acqua piovana”. Il suo verso ha un realismo onirico. E’ percorso dalla passionalità e bisogna puntare i piedi per leggere, perché la sua parola trascina come una raffica di vento. “Quell’odore di fumo e calcinaccio / quell’odore di carne macellata / che t’uccise ancor prima dello schianto / che vibrò per i muri e il cortile”.
La malinconia della vita, “le tramortite nostalgie”, l’elaborazione del lutto della madre, il bisogno urgente di ritrovare una propria origine, che diventa eternità di vita e di passioni, fanno da sotto testo alla sua raccolta poetica. “Risalire devi il fiume / del tuo sangue / fino alla fonte”.
Molte delle sue poesie sembrano fotografie, scatti presi lungo la strada nel corso delle ore che fanno il giorno, con l’obiettivo puntato sul dettaglio, un dettaglio che riesce a diventare panorama dell’animo. “Mi consolo andando in giro a fotografare le cose che presto spariranno”.
Scriveva usando carta e penna. Il suo è un dire asciutto e scarno e al tempo stesso è fortemente fisico. La sua scrittura ha un corpo. E’ toccabile. “E con la mano disegnare / la tua voce / che cala verso / me a raccontare”.
Goliarda Sapienza scriveva e basta, nonostante le delusioni editoriali. Amava parlare e ricevere lettere. “Non ho fiato eppure / vivo e ti guardo”. Leggeva spesso la sua corrispondenza epistolare davanti al mare di Gaeta, “un mare amico che non spia, non commenta, solo ascolta”. Desiderosa di contatti, era una che cercava il miracolo di un’amicizia “in questo deserto di gelido solipsismo tecnologico che ci imprigiona”.
Pare tenesse sempre con sé i Sonetti di Shakespeare e i “Fratelli Karamazov”. “Nell’ora che commuove l’erba”. I libri che teniamo con noi, le nostre coperte di Linus, se si guarda bene, sanno dire parecchie cose di noi. “Le albe / della tua fronte / questo vorrei ritrovare”.
Sfogliando le pagine di Goliarda Sapienza, per poterla raccontare anche attraverso le sue stesse parole, ci è accaduta quella cosa piacevole e rassicurante che accade con i libri memorabili, per dirla con Domenico Scarpa, ovvero il desiderio di rileggere ancora una volta, quel libro che stiamo sfogliando.
“Là dove il sangue s’aggruma / in nodi cartacei di pena / e trama vene di ricordi quagliati / morde la vita”. Nella letteratura che lascia il segno c’è la vita, sempre, “questo sostare / fra pozza e pozza”, e ci siamo noi “stretti nascosti dietro il muro”.