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Noia d'artista

L'ìnutilità dell'arte sopraffatta da un mercato bulimico

Francesco Bonami

Le fiere d’arte sono in crisi perché il grande collezionista non si affida più alla passione e tutti badano a spendere sperando di guadagnare. Così soldi e gloria hanno finito con il sovrapporsi 

In questi giorni è in corso Art Basel, la fiera d’arte più potente del mondo, fino a pochissimo tempo fa un’istituzione che come Re Mida tutto trasformava in oro e tutto vendeva a peso d’oro. Anzi prevendeva. “Scusi vorrei quel quadro”… “sorry, sold”, venduto, “e quella scultura?” “sorry, sold”, la piccola foto magari… “sold”.  Tant’è che l’anteprima per vip era preceduta da un ante ante prima prima per vvip, very very important people. Finché poi siamo arrivati alla surreale situazione che le gallerie più importanti avevano stand con opere già vendute settimane prima, trasformando la fiera in un assurdo sfoggio e spreco di potere economico. Una noia fenomenale.

Poi è arrivato il Covid e ora una sindrome di affaticamento estetico e pure economico. Anche chi ne ha da buttare via ha scoperto o riscoperto che un milione di euro, dollari o sterline, è tornato a essere un milione con il quale magari si pagano stipendi per un anno a venti persone in un’azienda e quindi buttarli nel quadretto dell’emerito sconosciuto, etno gender fluid resuscitato o novantenne ingiustamente dimenticato, forse non è saggio e nemmeno così divertente. Anche perché un tempo il quadretto faceva la trafila: studio, galleria, museo, Biennale, per arrivare poi sul mercato e poi alla casa d’aste. Oggi l’opera dell’artista che a malapena può guidare il motorino dallo studio passa alla casa d’aste dove la stima minima viene decuplicata, forse naturalmente forse artificialmente. Negli ultimi anni si è prodotto a bizzeffe per un mercato bulimico che, se regolato come i mercati azionari, manderebbe in galera tre terzi degli operatori del mondo dell’arte con accuse di diverso tipo, da insider trading a turbativa d’asta e via di seguito. Ma essendo l’arte inutile, va benissimo così. Il problema è, senza fare i moralisti, che i soldi piacciono a tutti e la gloria a molti.

Così soldi e gloria hanno finito con il sovrapporsi e se al valore culturale di un’opera non corrisponde un valore commerciale effettivo, tu artista rischi di essere un loser. Per questo motivo le fiere d’arte comprese Art Basel annaspano. I collezionisti poi sono stati viziati nel corso degli anni da profitti esorbitanti. E’ normale che qualcuno chieda cosa c’è di bello sottolineando due cose in opposizione fra loro, il budget non è un problema, ma non voglio buttar via i miei soldi. Le due cose sono praticamente inconciliabili. Non solo i grandi collezionisti del passato hanno fatto soldi buttandoli via e stando attenti al budget. Il grande collezionista si affidava alla passione e se la passione lo richiedeva non badava a spese. Oggi pare essere finita la passione e tutti badano a spendere sperando di guadagnare. Ma nell’arte se tutti sono vincitori, finisce che l’arte stessa diventa perdente, insignificante per quanto remunerativa. Il grande collezionista vedeva il winner dietro il loser. Ma oggi in un posto come Art Basel il loser non lo fanno nemmeno entrare che sia artista, gallerista, collezionista o curatore.

Trovare quindi roba veramente interessante è diventato difficile, quasi impossibile e se c’è costa troppo e se costa troppo è probabile che diventi meno interessante velocemente. Comprare arte dovrebbe essere, per chi se lo può permettere, un piacere. Ma se il rischio diventa solo stress, addio divertimento. La soluzione? Forse non c’è. L’arte, la cosa più utile fra le cose inutili, potrebbe essere diventata inutile.

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