pagina 69

Verso lo Strega: "Autobiogrammatica" di Tommaso Giartosio

Mariarosa Mancuso

Un titolo che si fa notare, nel bene e nel male. Il libro ci ricorda la virtuosa pratica di riporre via un volume e di chiuderlo a chiave

"Autobiogrammatica". Il titolo si fa notare, nel bene e nel male. Nel male, perché dalle autobiografie siamo sommersi – mentre una ventina di anni fa l’autore Tommaso Giartosio lamentava in Italia “la mancanza del gesto autobiografico”. Con parole semplici: “Mi manca l’autobiografia in questo paese privo di romanzi”. Nel bene, perché ancorare l’autobiografia a qualcosa di concreto – biglietti da visita; camicie e calzini verde pisello nell’unica valigia che i sovietici consentivano agli ebrei di portarsi via; tavola degli elementi di Mendeleev – nella maggior parte dei casi ravviva la materia. Il racconto di un’esistenza come la storia di un linguaggio. Abbiamo scelto una delle più semplici formulazioni. Un’altra parla di due linee sinuose che si snodano, una riguarda l’apprendimento dell’alfabeto e delle parole, l’altra i fatti della vita: amicizia, desiderio, il proprio posto nel mondo. Una doppia elica, come il Dna.
 

Prima di arrivare a pagina 69, l’occhio cade sulle prime righe di un capitolo: “La pasta al forno con i peperoni era croccante quasi quanto la parola croccante, era untuosa come untuosa”. I linguisti non sarebbero d’accordo, il lettore se ne ricorderà alla prossima lasagna al forno. E’ l’effetto che fanno i libri, senza incidere sul girovita. La pagina 69 è collocata nella seconda parte, intitolata “Abbecedario”. La pasta al forno untuosa e croccante era nella prima sezione: “Presa di parola” (la pagine di “Autobiogrammatica”, edito da minimum fax ed entrato in cinquina con la via preferenziale “piccola casa editrice”, sono 444). Descrive un interno famigliare: due figli che nelle rispettive stanze “stanno venendo letti dai loro testi universitari”; un ragazzo di sedici anni buttato sul letto, “semisepolto sotto una coltre di adolescenza”.
 

“Tutti saprebbero” – scrive ancora Tommaso Giartosio, siamo sempre a pagina 69 – “riprodurre con precisione la partitura di clicchettìi, il soffio della porta che si apre, il tonfo smorzato del richiudersi”. Forse sul momento no, ma di certo tornano utilissimi quando si scrive un’autobiografia. Semplice, oppure “grammatica”, (scopriamo oggi). Papà torna a casa, e invece di comportarsi come nei telefilm americani anni 50 – “Honey, I’m Home!”, e la casalinga con il grembiule accorre – grida “Ó-óóó-làà”.
 

Segue una serie di azioni a passo di danza: il genitore con gli anni ha “accumulato peso e perso potenza, ridistribuendo la meccanica in un gioco di posizioni involontariamente grazioso”. E via così: “Come ballerine che si affrettano da una quinta all’altra del “Lago dei cigni”, la borsa di cuoio deve andare ad accucciarsi in camera da letto, il Burberry e la lobbia morire sull’attaccapanni vicino al terrazzo piccolo”. A pagina 99 – doppio controllo considerata la lunghezza del libro – leggiamo ancora del ragazzo: “Come tanti ha una ferita ancora fresca. Ma è già impegnato a suturarla”. Vivaddio, viene da dire. “Autobiogrammatica” ci regala il concetto di “soffitta mentale”. Non rimuovere, che poi pure lascia strascichi, diceva Freud. Riporre e chiudere a chiave.

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