non giudicare un libro dalla biografia

Da Allen a Rowling: distinguere o non distinguere? In italiano i “Mostri” di Claire Dederer

Matteo Moca

Muovendo da un articolo pubblicato su Paris Review, la giornalista americana si chiede se sia possibile continuare ad amare le opere di chi si è macchiato di reati gravi o di una condotta detestabile 

Quando Proust inizia a pensare a Contro Sainte-Beuve ha bene in mente cosa del metodo del critico francese non gli andasse a genio, l’idea che un’opera si giudichi attraverso la biografia del suo autore. Sainte-Beuve insisteva sulla fusione tra vita, opera e interpretazione, mentre per Proust “un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale”. Se la questione all’inizio del Novecento coinvolgeva scrittori e critici, oggi, dall’ondata del #MeToo alla cancel culture, i dubbi su come si debbano approcciare le opere di autori che si sono comportati in modo deplorevole è argomento di un ampio dibattito.

Attorno a questo ruota Mostri. Distinguere o non distinguere le vite dalle opere: il tormento dei fan della giornalista americana Claire Dederer (Altrecose, 320 pp., 20 euro, traduzione di Sara Prencipe) che, muovendo da un articolo della Paris Review, si chiede se è possibile continuare ad amare le opere di chi si è macchiato di reati gravi o di una condotta detestabile. 
Mostri procede con un passo duplice perché Dederer affianca un acuto sguardo critico (l’analisi delle sequenze di Rosemary’s baby di Polanski o del racconto Perché non ballate? di Raymond Carver) ai dubbi sulla liceità di continuare a fruire di queste opere: la galleria è popolosa (Woody Allen, J.K. Rowling, Ezra Pound, Virginia Woolf tra gli altri), ma alla fine pare non esserci alcuna soluzione. In ballo però non c’è più il rapporto tra un fruitore e l’opera, ma tra lui e l’artista: la critica, smarrita la krisis, spesso non riesce a fare a meno di scavare nelle biografie degli autori, sia per le corpose declinazioni autobiografiche delle opere contemporanee, sia perché risulta la cosa più semplice in un tempo in cui gli avvenimenti privati cadono continuamente addosso ai fan. Si può obiettare che questo spostamento tra l’oggetto e il suo creatore è grammaticalmente scorretto, ma oggi esiste ancora una separazione tra vita e opera? Difficile rispondere, ma il rischio di questo procedimento inquisitorio, soprattutto se condotto ciecamente, è di perdere l’esperienza primaria dell’arte che dalle pitture rupestri, passando per la Divina Commedia e i quadri di Caravaggio, fino a Lolita di Nabokov, le opere di Louis-Férdinand Céline o di Roman Polanski, vive per raccontare e, nel migliore dei casi, per insistere attorno alle domande più radicali dell’animo umano, splendidamente riassunte da Paul Gauguin, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? 

Certamente esiste una differenza tra la valutazione dell’opera e quella dei concetti che veicola: in questo senso è proprio attraverso il personaggio riprovevole di Humbert Humbert che Nabokov in Lolita offre al lettore, che giustamente si indigna, l’atroce cancellazione della gioventù della piccola protagonista. Dederer, che non si abbandona mai a verità scontate, affronta anche con le sue imperfezioni la questione mostrando con coraggio, in un riuscito esercizio critico, cosa significa interrogarsi liberamente su un dubbio senza una tesi granitica da difendere. Se, come nella vita, si riesce a fronteggiare (senza ovviamente giustificare) i fallimenti e le delusioni delle persone che ci stanno attorno, l’approccio a queste opere e ai loro autori assume un colore diverso, quello della spinta alla conoscenza, alla curiosità verso l’origine delle cose. Per Gustave Flaubert lo scrittore deve fare in modo che “la posterità creda ch’egli non abbia vissuto” perché l’opera deve parlare per lui: Viaggio al termine della notte, Chinatown, i quadri di Picasso e le poesie di Sylvia Plath sono la testimonianza che questo, quando si tratta di veri capolavori, è ancora possibile.
 

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