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musica e linguaggio

Rousseau musicista, precursore dell'unità fra melodia e azione scenica

Mattia Rossi

L'enciclopedista, oltre ad essersi occupato di musica, fu musicista e compositore. Predilesse la scuola italiana, schierandosi apertamente contro quella francese ed i suoi esponenti. Determinante, in questo senso, la sua permanenza a Veneza 

Che Rousseau, tra tutti gli enciclopedisti, sia stato il più prolifico in materia di musica è dato noto e di tutta evidenza. Meno lo è, invece, il fatto che Rousseau, prima di diventare filosofo nel 1750, fosse un musicista e compositore.
La musica lo formò sin dall’infanzia, in casa con il padre e al culto in chiesa, e nella giovinezza quando iniziò a studiare alla Maîtrise della cattedrale di Annecy debuttando, ventenne, come compositore. Nel 1749, quando D’Alembert e Diderot decisero di affidare a lui le voci musicali dell’“Encyclopedie” (che poi sfociarono in un testo monografico e di ampio respiro: il “Dictionnaire de musique”), Rousseau era un musicista e compositore in carriera con alle spalle già diversi brani, cantate, canzoni, romanze. Attività che proseguì anche negli anni successivi alla sua affermazione quale filosofo: nel 1752 portò in scena la sua opera più celebre, “Le devin du village”, che ottenne anche un discreto successo, nel 1770 fu la volta di “Pygmalion”, poi dell’opera “Daphnis et Chloé” rimasta, però, incompiuta.

Determinante, nella definizione del gusto, fu la sua permanenza giovanile a Venezia, tanto che la musica italiana, vista la dichiarata predilezione del filosofo per l’aspetto melodico, fu sempre da lui considerata superiore: nel 1752 non esitò a scendere nell’agone di quella che è conosciuta come la “querelle des bouffons”, schierandosi apertamente contro il paladino della musica francese, Jean-Philippe Rameau, con una polemica trascinata per anni. Non contento, nel 1753, ribadì le sue posizioni nella furente “Lettre sur la musique française”: “Non c’è né ritmo né melodia nella musica francese; il canto francese è solo un continuo abbaiare, insopportabile a qualsiasi orecchio. Da ciò concludo che i francesi non hanno musica e non possono averne; o che se mai ne avranno una, sarà tanto peggio per loro”.

Amalia Collisani è certamente la voce più autorevole sul Rousseau musicologo e in un saggio pubblicato da NeoClassica, “La musica di Jean-Jacques Rousseau”, traccia un profilo del filosofo e compositore che si può davvero dire definitivo. Anche perché va a sondare nei più profondi meandri della musicologia rousseauiana: come l’attenzione di Rousseau – che era stato nella sua carriera anche un copista di musica con l’alta missione di essere “intermediario tra quello che immagina il compositore e quello che intendono gli ascoltatori” – per la notazione grafica. E qui emerge il (pre)romanticismo del filosofo ginevrino che, nel 1742, propose all’Accademia delle Scienze di Parigi un nuovo sistema di notazione meno rigido del pentagramma perché “i prodotti più straordinari della creatività sono quelli che non ci sono trasmessi, quelli che non vengono ridotti in forma grafica”.
Romanticamente fu anche fervido sostenitore dell’unità di musica e lingua, musica e linguaggio, e quindi precursore dell’unità tra musica e azione scenica. Ma qui, passando per Gluck, arriviamo a Wagner ed è tutta un’altra storia.