Le chiozzotte intelligenti
Il diritto di divertirsi: le donne nelle commedie di Carlo Goldoni
Nelle opere dell'autore sono protagoniste moderne e vitali, capaci di ragionare, ridere e lottare. Non figure stereotipate ma individui autonomi. La coralità delle opere riflette un mondo dettagliato e vivace
Le donne sono le vere protagoniste delle commedie di Carlo Goldoni. Non sono donne stereotipate, forzate in matrimoni prestabiliti, ridotte al ruolo di servili compagne, chiuse nel silenzio domestico. Tutt’altro. Sono donne che ragionano, ridono, riflettono, soffrono, amano, lottano e sono in grado di piegare alla loro volontà gli innamorati insicuri, gli sbruffoni prepotenti, burberi o gelosi. Sono donne che, tra donne, litigano e si confidano: amiche custodi di segreti inconfessabili o pettegole vendicative della peggior specie. Sono donne di una modernità assoluta soprattutto nel loro sapersi divertire. Reclamano il diritto allo spasso, alla risata, alla mascherata, al gioco, all’eccesso. Non temono di essere morbinose, cioè di confessare il loro morbìn, vale a dire quel particolare sostantivo che secondo Goldoni significa essere “donne di bel tempo”, in grado di padroneggiare il gioco erotico e seduttivo. Come scrive nei suoi Mémoires, le donne “formano la principal delizia del brio nazionale”. Non sono l’emblema della frivolezza settecentesca di una città in declino, anzi, sono donne acute, ironiche, consapevoli di sé e della loro forza, provocanti, sensuali, con scatti dialettici potentissimi. Insomma Goldoni ci offre il ritratto di una femminilità autorevole e allo stesso tempo stuzzicante, dispiegata a livello sociale perché ci racconta donne aristocratiche, donne borghesi o povere che vivono lontano dai marmi, dagli stucchi e dagli affreschi dei soffitti veneziani, come le chiassose pescivendole di Chioggia. Tutte queste donne hanno in comune una carica di vitalità irresistibile.
Il ritratto di una femminilità autorevole e allo stesso tempo stuzzicante, dispiegata a livello sociale: aristocratica, borghese o povera
Nella commedia corale Le baruffe chiozzotte, l’azione si svolge tra le casupole di un gruppo di pescatori a Chioggia, una città sulla laguna a sud di Venezia, dove anche la lingua è diversa rispetto al veneziano. L’inflessione è differente, la cantilena è marcata e gli accenti cadono ampi e lunghi sulle vocali aprendone con decisione i suoni in modo popolano, come gonfiati dal vento che soffia tra quelle case in riva al mare. È l’occasione per conoscere da vicino un mondo in dettaglio, quello di un villaggio di pescatori, che Goldoni crea con termini precisissimi. La letteratura diventa testimonianza di un microcosmo umano che possiamo conoscere come se anche noi fossimo lì dentro, tra quei vicoli e quelle case con il vento di scirocco a scompigliarci i capelli. Sotto ai nostri occhi vediamo il pesce che viene scaricato dalla tartana, i cui nomi non vanno affatto confusi: sfoggi, barboni, boseghe, rombi, granzi, bisatti… tutti termini diversi che Goldoni usa per individuare i pesci che sono nelle ceste della barca e che avranno prezzi e pesi diversi da valutare poi sul mercato.
Le baruffe chiozzotte non è una commedia con un protagonista principale, ma vive di una coralità fatta di battute brevissime, incalzanti, cucite con la maestria di Goldoni a creare un tessuto ampio e sinfonico, ma allo stesso tempo in grado rapidamente di cogliere e isolare un piccolo dettaglio. E il dettaglio principale da cui scaturisce la vicenda è semplicemente una zucca, che qui però non viene trasformata in carrozza, ma arrostita e venduta ancora calda e profumata, appena tirata fuori dal forno, da un ambulante che la porta in giro con il suo carrettino. Una piccola prelibatezza che un bel giorno il giovane Toffolo Marmottina offre a Lucietta. Una fetta di zucca barucca, cioè arrostita: parte tutto da lì. Quando il fidanzato di Lucietta, Titta-Nane, viene a sapere che la sua ragazza si è intrattenuta con Toffolo, va su tutte le furie e nasce una litigiosa baraonda che, con un meccanismo a valanga, va a coinvolgere tutti gli altri compaesani, con lanci di pietre, coltelli, rincorse, minacce, grida, porte sbattute, imprecazioni… una vera sceneggiata marina all’aria aperta.
“Le baruffe” non ha un protagonista principale, ma vive di una coralità fatta di battute brevissime incalzanti. Tutto parte da una zucca
A Toffolo in paese hanno affibbiato il soprannome di Marmottina perché a quanto pare non sarà stato un adone da un metro e novanta… è un marmottina, uno bassino e permalosetto, che si offende a morte appena lo chiamano in quel modo. Del resto, tutti i personaggi vengono chiamati con i loro nomignoli che ne identificano solitamente un difetto, come accade anche oggi (e come accadeva anche a un certo Mastro Geppetto, quando un pezzo di legno lo chiamava Polendina, per via della sua parrucca giallognola…). Qui nelle Baruffe le donne, appena si scaldano, principiano a scambiarsi nomignoli dispregiativi: la fidanzata di Toffolo è Checca, detta “puinetta” che significa ricotta, perché è una molle lagnosetta; Donna Pasqua è chiamata “fersora” perché evidentemente i suoi vestiti puzzano di fritto visto che la fersora è la padella per friggere, mentre Lucietta è chiamata “panciana” perché è una che le spara grosse e, all’occorrenza, è pronta a raccontare pure qualche panzana, appunto, pur di ottenere quello che le serve. È una grande commedia corale con dinamiche non lontane dalla serialità televisiva contemporanea. In effetti, le commedie di Goldoni potrebbero tranquillamente essere viste come la serialità del Settecento; basterebbe prenderne alcune, mescolarne i personaggi e le trame per creare una sequenza di episodi che vivono di un site specific preciso: la laguna di Venezia nella seconda metà del Settecento.
A Lucietta, che ha accettato con un sorriso la fetta di zucca offerta da Toffolo e se l’è mangiata avidamente innescando la gelosia del fidanzato, Goldoni lascia l’epilogo della commedia; certo, è un testo corale, ma qualcuno dovrà pur avere l’ultima parola e guarda caso, come spesso accade in Goldoni, tocca a una donna. Lucietta ha dunque il testimone finale da passare al pubblico per congedarlo dal teatro e lo fa con queste parole: “Semo donne da ben, e semo donne onorate; ma semo aliegre, e volemo stare aliegre, e volemo balare, e volemo saltare”. La frase che chiude la storia sembra presentare un’apparente contraddizione: siamo donne rispettabili, ma… siamo allegre e vogliamo rimanere allegre. Questa ragazza sembra dire che c’è un limite e lei, adesso, a nome di tutte le donne di Chioggia (parla infatti al plurale…) vuole ribadirlo chiaro e forte non solo agli altri personaggi in costume accanto a lei, ma anche a tutti quelli seduti o in piedi che assistono agli eventi della ribalta. C’è il coraggio di dire di no in questa ragazza: noi siamo allegre e vogliamo stare allegre! Abbiamo il diritto alla risata, anche sfacciata, anche imprevedibile, abbiamo diritto al nostro sorriso dolce, ironico o provocante che sia. Abbiamo il diritto di accettare senza paura una fetta di zucca arrostita! C’è un limite che la stupida gelosia maschile non deve oltrepassare, c’è un limite al sopruso, alla minaccia, al ricatto, alla violenza, al silenzio delle mura domestiche, le nostre dotate di sistema domotico o quelle di legno salmastro dei pescatori di Goldoni. A volte mi diverto a pensare chissà come sarebbe la storia di Otello se al posto di Desdemona ci fosse stato un tipetto come Lucietta! Una con quel caratterino graffiante che non le manda a dire, che non si fa mettere i piedi in testa da un Titta-Nane iroso e mosso dalla gelosia; me la immagino piantare gli occhi in faccia a Otello mettendogli il fazzoletto sotto al naso e dirgli con voce forte e accento dialettale: “Begli amici che ti sei scelto, caro il mio moretto veneziano! Stai ancora a perdere tempo dietro a quello sfigato di Jago?”. Sì, sarebbe proprio da vedere una storia così, sarebbe da scrivere.
C’è un limite che la stupida gelosia maschile non deve oltrepassare, c’è un limite al sopruso, alla minaccia, al ricatto, alla violenza, al silenzio
Un altro ritratto femminile potente, questa volta drammatico, è quello di Bettina, che come una miniserie televisiva, è svolto da Goldoni in due puntate. La prima è la commedia La putta onorata, scritta nel 1748 e che ha per protagonista una ragazza, Bettina, che cerca un riscatto dalla sua condizione di povertà. La seconda Goldoni la prepara per l’anno successivo, quando scrive La buona moglie, dove ritroviamo Bettina che nel frattempo si è sposata e ha anche partorito un figlio. Sono gli anni della cosiddetta “riforma” goldoniana, cioè la coraggiosa decisione dell’autore di abbandonare l’uso delle maschere per costruire personaggi che parlano e recitano in modo diverso, aprendo tematiche nuove e conflitti che gli stilemi di Arlecchino e Pantalone non potevano essere in grado di affrontare.
Bettina è una donna che arriva alla maturità e affronta drammi psicologici intensi. Di nuovo possiamo dire che le donne sono le vere protagoniste delle commedie di Carlo Goldoni e Bettina offre il ritratto di una donna in conflitto che si ritrova a dover gestire un figlio da sola, mentre il marito è un alcolista schiacciato da una figura paterna che lo domina e da cui non è in grado di emanciparsi. Bettina sembra chiedersi: come si fa a essere una buona moglie? Cosa vuol dire esserlo e perché dovrei esserlo, che senso ha? Le sue domande pongono dubbi e riflessioni che fanno capire quanto la Serenissima fosse una Repubblica aperta a un confronto laico e quanto i suoi palcoscenici rappresentassero la condivisione di questo confronto e la dialettica di una collettività. Bettina è una madre sola e abbandonata da Pasqualino, suo marito. Tutto sembra, meno che il trallallero a cui solitamente Goldoni viene associato e c’è spazio anche per un assassinio, quando Lelio, il cattivo della storia, viene ucciso in una rissa.
Bettina è una donna che viene picchiata dal marito, come Delia, la protagonista del recente film di Paola Cortellesi, ma deve fare i conti con una società che è ben lontana dal concederle dei diritti. Eppure Goldoni le concede dignità. Dignità di raccontare la sua storia, di offrirci il suo punto di vista, di accogliere con rispetto la sua sofferenza. Luca Ronconi elaborò una versione delle due commedie pensate come un dittico, intitolato giustamente “Bettina” e trasmesso sulla Rai nel 1976, offrendo al pubblico l’intensità drammatica e la modernità della vicenda.
Poi il personaggio di Bettina, al quale Goldoni concede dignità. Dignità di raccontare la sua storia, di offrirci il suo punto di vista
Mi piace immaginare una ragazza che nel 1762 fosse in mezzo al pubblico al teatro San Luca a Venezia. Magari camminando verso casa le potrebbero essere rimaste in mente le parole dette da Lucietta nel congedo finale… voglio essere felice, allegra, e questo non è il contrario di essere rispettabile. Ho diritto al rispetto anche se mi vesto come mi sento; ho diritto a ridere e a ballare e a incontrare qualcuno senza paura che il mio fidanzato possa essere violento e mi minacci; ho diritto di replicare alle sue parole… come ho visto fare a Lucietta, che ad un certo punto gli dice no, tieniti i tuoi regali e le tue promesse, io non voglio essere trattata così.
Ho voglia di immaginare e sperare che la letteratura possa offrire questo: una presa di coraggio verso se stessi, un guardarsi dentro e guardarsi in faccia. Una possibilità di cambiamento. Una ragazza che torna a casa e che si sente più sicura di sé grazie ad un’amica che esiste solo quando si apre il sipario e scompare nell’attimo in cui si chiude, ma in quell’intervallo di tempo arriva a dirti chi sei e darti il coraggio di restituire sempre dignità alla tua esistenza.