Letture estive
Le storie sulle spie piacciono a tutti, perfino al maestro Philip Roth
Stiamo abbandonando le etichette di genere per apprezzare la narrativa nella sua totalità, come evidenziato dal professor Bertinetti nel suo libro "Agenti segreti": questo approccio, applicato a scrittori come John Le Carré, sfida i pregiudizi accademici e promuove una lettura più libera e inclusiva
Così come ci stiamo lasciando alle spalle la separazione tra narrativa e non-fiction – che sia literary o meno – potremmo iniziare anche ad abbandonare le etichette di genere (non genere inteso come gender, ma come genre). Basta appiccicare il timbro di romance, gialli, sci-fi, fantasy, thriller o mistery sulle copertine, soprattutto quando l’autore può considerarsi un bravo scrittore, uno che fa letteratura, anche secondo critici e colleghi. Nei confronti del pessimista John Le Carré, ad esempio, morto nel 2020, è in corso una de-generizzazione, almeno da parte dell’anglista Paolo Bertinetti. Nel suo libro appena ristampato da Sellerio, "Agenti segreti - i maestri delle spy story inglesi", il prof. Bertinetti ricorda come anche secondo Ian McEwan, Le Carré debba essere “apprezzato per le straordinarie qualità di narratore che lo pongono al vertice della produzione letteraria contemporanea”. E pure Philip Roth diceva che La spia perfetta era “il miglior romanzo inglese del Dopoguerra”. Parole forti, che fanno venire i brividi ai puristi. Ma dopotutto pure Conrad ha scritto un libro di spionaggio come L’agente segreto. Più difficile fare questa operazione in Italia dove, scrive il prof. Bertinetti “ancora più forte è il pregiudizio accademico nei confronti di ciò che non rientra nel canone”, essendo poi la nostra università molto presa dalle letterature post coloniali che tanto vanno di moda, e gli inglesi vengono dimenticati.
Il libro di Bertinetti non si limita ovviamente a questo sdoganamento, è un’agile storia ben strutturata sui romanzi di spionaggio dalle origini (bello scoprire come spesso gli autori siano stati in qualche modo agenti segreti). Vediamo come ogni spia della letteratura rispecchi la storia che lo circonda, gli eventi geopolitici, la coscienza nazionale, gli sviluppi tecnologici, i cambiamenti sociali. Spesso la spia difende una civiltà, più che una nazione – e quindi proviamo simpatia per l’agente perché difende un ideale più che una bandiera. Certo, oggi alcune frasi di Fleming finirebbero nel rogo delle neofemministe. Ma non è solo questo a segnare il tempo che scorre. L’Inghilterra di James Bond, ad esempio, è un paese che inizia a rendersi conto di non contare più nulla nello scacchiere mondiale, che le potenze ormai sono altre, che il potere l’impero è solo un ricordo. 007 in questo, e ancora di più M, finiscono per rappresentare i nostalgici di un tempo che fu. “Il fatto che Bond fosse decisivo per salvare il mondo rappresentava per il lettore britannico un’indiscutibile gratificazione”, scrive Bertinetti. Sottolinea anche come, senza il cinema, Fleming non avrebbe avuto lo stesso livello di successo. Molti infatti considerano la sua scrittura piuttosto mediocre (si salva, dice Bertinetti, Casino Royale). Lo stesso Fellini, anticipando Scorsese sui film Marvel, diceva che vedere i film di 007 era come “andare al Luna Park” – eppure non se ne perdeva uno.
Non perché siano necessariamente paperback da ombrellone, ma leggere il testo di Bertinetti a ridosso dell’estate fa venire una gran voglia di riempire la valigia di spy story. Un Eric Ambler qui, un Le Carré lì, tutto Graham Greene e magari pure un Len Deighton, da riscoprire. Per fortuna, in fondo al libro c’è anche una lista con i consigli.