Foto LaPresse - Davide Livermore

palcoscenici illuminati

Tutti con i lumini in mano alla fine di una “Turandot” iperaccessoriata

Alberto Mattioli

La performance pucciniana ha visto in regia Davide Livermore e la sua solita squadra di maghi dell'immagine. Molti idee giuste, mentre altre hanno funzionato meno 

Finisce la marcia funebre dopo il suicidio di Liù. Sul grande led rotondo in scena compare la scritta: “Qui Giacomo Puccini morì”. E “Potete accendere le vostre candeline” sul display dei sottotitoli nello schienale delle poltrone. Lo spettacolo si ferma, il palcoscenico si illumina di lucine, la Scala pure, per fortuna niente applauso, segue dibattito in pizzeria: trovata cringe da “mocoleti” areniani o momento comunitario doverosamente celebrativo, quindi inevitabilmente retorico? Propendo per la seconda ipotesi.

Ci sta, comunque, in questa Turandot affollata e iperaccessoriata, fastosa ed eccessiva, un teatro barocco nell’evo dell’hi-tech. Regia di Davide Livermore, ovvio, con la sua solita squadra di maghi dell’immagine. Tanta roba, come dicono i gggiovani, e quasi tutta anche buona. Molte idee giuste: il primo atto in una Pechino contemporanea e grigia, il Principe di Persia denudato (tutto, lato A compreso) e linciato dalla folla, il boia che è una boia elegantissima, Ping Pang e Pong come voci interne di Calaf di cui portano la maschera e che invece di fare le solite scemenze rimpiangono la casetta di bambù sul laghetto blu in un bordello-fumeria d’oppio, eccetera. E poi ponti mobili che vanno su e giù, video mirabolanti, realtà così aumentate da diventare più vere del vero, costumi assai belli benché viola quindi jettatori, un cavallo (finto) un po’ troppo riproposto, eccetera. E’ risolto perfino il duettone finale, il solito Alfano toscaninizzato, ed è più l’eccezione della regola. Funziona meno il secondo quadro del secondo atto, con lei che scende la scalinata come se fossimo in una Wallmann 2.0, o a Sanremo, e il coro disciplinatamente in fila ai lati. Nel complesso, uno spettacolone-one-one “da Scala”, come avrebbero detto le formaggiaie di arbasiniana memoria, e alla fine assai riuscito. Diventerà un classico della casa. 

Sul podio, Michele Gamba ha chiarissima la Turandot che vuole, novecentesca, piena di percussioni stravinskiane o bartokiane, incalzante, nervosa, espressionisticamente “fredda”, però anche con finezze cameristiche squisite, per esempio nelle arie di Liù cui viene risolutamente impedito di cantarsi addosso, e sempre senza le nefaste pucciosità pucciniste. Orchestra ottima, Coro che ve lo dico a fare (centomila anni ai coristi della Scala!) e direzione nel complesso riuscita pure lei, magari con qualche eccesso fonico, specie nel primo atto. Compagnia dominata, manco a dirlo, da Anna Netrebko, in forma smagliante, con la pienezza vocale e gli acuti fulminanti delle Turandot wagnerian-straussiane di una volta (ma il timbro assai più bello) e i pianissimi trasognati delle Turandot “liriche” degli ultimi decenni. Insomma, un incrocio fra la Nilsson e la Caballé: imperiale. Al suo fianco, Yusif Eyvazov: si sa che il timbro non è squisito e il vibratino persistente, però è un tenore che sa cantare e ha perfino squillo negli acuti, un’autentica rarità, tipo Sangiuliano che ne dice una giusta. Semmai, lo ostenta troppo: va bene la variante acuta di “Ti voglio ardente d’amor!”, ma ficcarci tre do e non uno è troppo; idem per il si naturale di “Nessun dorma!” tenuto come se non ci fosse un domani. Rosa Feola è una Liù inappuntabile, Vitalij Kowaljow-Timur esibisce il vocione, e si rivede con piacere il glorioso Raul Gimenez come Altoum con barba bianca di sei cubiti mentre distribuisce strette di mano alla plebe come un politico qualunque. Il trio delle maschere è tutto cinese o coreano (diplomazia del Ping Pang Pong?) e intollerabilmente modesto. A lumini spenti, applausi molto convinti con appena un paio di buuu! che alla Scala sono di rigore. 

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