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Cancro, l'ossessione di Hitler
La guerra dichiarata dal Reich ai tumori produsse ricerche scientifiche e scoperte, ma per i motivi più perversi. Di contro, negli Stati Uniti la lotta contro il cancro, specialmente sul lato preventivo, non fu affatto così anticipata come in Germania, né raggiunse mai lo stesso livello per ampiezza, iniziative o consapevolezza
L’imperatore del male. Una biografia del cancro” è un saggio di 600 fitte pagine di Siddhartha Mukherjee, ematologo e oncologo di origini indiane naturalizzato statunitense, vincitore del Pulitzer per la saggistica nel 2011. Di indiscusso valore, leggibilissimo, cosa che non guasta mai, il saggio è stato inserito dalla rivista Time tra i 100 più importanti di ogni tempo. La Parte quarta, delle sei in cui è suddiviso, va sotto il titolo, in verità assai anodino, di “Prevenire è meglio che curare” e si apre con una dettagliata esposizione di due studi di Bradford Hill e Richard Doll, biostatistici inglesi, che hanno fatto la storia dell’epidemiologia e della prevenzione tanto in termini di metodologia della ricerca epidemiologica che, più ancora, per le conclusioni cui approdarono: l’associazione finalmente comprovata tra il tumore al polmone e il fumo di sigaretta. Entrambi gli studi furono pubblicati sul British Medical Journal: a settembre del 1948 il primo, agli inizi del 1954 il secondo. Le date sono importanti. Ed ecco perché.
Nel 1939 Franz H. Müller pubblica sulla più importante rivista tedesca di ricerche sul cancro sotto forma di un lungo articolo la sua tesi di laurea dal più che esplicativo titolo “Tabakmissbrauch und Lungencarcinom” – abuso di tabacco e cancro del polmone – che si conclude con l’apodittica affermazione, tanto pionieristica quanto per allora sorprendente, e a scanso di equivoci dall’autore perfino sottolineata: “Lo straordinario incremento dell’uso del tabacco costituisce la causa più importante della crescente incidenza dei tumori polmonari”. Una sintesi dell’articolo apparirà, tradotta, anche su Jama, la rivista dell’American Medical Association, nel settembre dello stesso anno.
Robert N. Proctor autore de “La guerra di Hitler al cancro”, altro formidabile saggio del quale diremo estesamente, ci ricorda che quello di Franz H. Müller “costituisce il primo studio controllato al mondo sulla relazione tra tumore polmonare e tabacco, ma è ben poco noto al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti”. Detto che il grande valore della ricerca di Müller sta soprattutto nella capacità di ricavare, sistematizzare e analizzare dati statistici, occorre rimarcare fino in fondo come la pubblicazione dei risultati del medico tedesco anticipi di quasi un decennio il primo articolo a firma Bradford Hill e Richard Doll del 1948 sullo stesso tema: tumore al polmone e uso di tabacco. Di Franz H. Müller ,“uno dei personaggi più enigmatici nella storia della medicina”, secondo le parole dello stesso Proctor, non si sa praticamente nulla, se si tolgono le poche righe di curriculum allegate alla presentazione della tesi all’Università di Colonia. Di un tirocinio presso l’ospedale di quella città, da cui prese le mosse per le sue ricerche, le tracce sono andate distrutte nei bombardamenti e l’ipotesi che va per la maggiore è quella ch’egli abbia perso la vita non ancora trentenne (era nato nel 1914) su qualche fronte della guerra del Reich.
Franz H. Müller è a tutti gli effetti il padre dell’epidemiologia sperimentale e se una cappa di silenzio è scesa sul suo nome e il suo lavoro non è soltanto perché, pubblicata la tesi che aveva 25 anni, la sua figura è sprofondata nel buio di una totale assenza di informazioni. C’è infatti da dubitare che la sua fama di scopritore del legame tra fumo, segnatamente di sigaretta, e tumore al polmone, la più importante scoperta di tutti i tempi dell’epidemiologia, sarebbe stata altra rispetto a quella, limitatissima, che gli è toccata. Egli ebbe infatti il torto di essere un precocissimo talento della ricerca medico-epidemiologica nel bel mezzo del regime nazista. La medicina preventiva nazista, e più specificamente la vera e propria guerra che il regime ingaggiò contro il cancro, non ha eguali nel suo tempo per ampiezza, consapevolezza, idee, progetti, studi, iniziative, centri e organizzazioni, medici e scienziati che vi si dedicarono. Ma non le è stato perdonato il peccato originale: quello di essere anch’essa, in certo senso, il prodotto dell’ideologia del regime più criminale e sadico di tutti i tempi. Tanto criminale che Robert N. Proctor si sente in dovere di scrivere nel prologo al suo saggio “La guerra di Hitler al cancro” del 1999 parole quasi di scusa per ciò che andava facendo: “Sono tra quanti ritengono importante, per gli studiosi, saper difendere la scelta dei propri progetti di ricerca. Devo sottolineare che non avrei mai scritto questo libro se non avessi già esplorato i più nefandi aspetti dei crimini nazisti in ambito medico”.
Ma ecco allora, ad avvalorare questa estrema ritrosia scientifica, ancora una questione di date – come già per gli articoli che provano l’indiscutibile primogenitura di Franz H. Müller nella scoperta del collegamento tra abuso di fumo e tumore al polmone – che ancor più la illumina. Il celebratissimo “L’imperatore del Male” di Siddhartha Mukherjee, è del 2010, undici anni dopo il libro di Robert Proctor “La guerra di Hitler al cancro”. Non si può non presumere che Siddhartha conoscesse bene il lavoro del collega – che aveva peraltro suscitato un bel dibattito ed era stato tradotto largamente all’estero (in Italia nel 2000 da Raffaello Cortina Editore, nella collana diretta dal compianto Giulio Giorello). Eppure non dice una parola di Franz H. Müller, della sua tesi di laurea, del suo articolo che tutti li precorre di quel genere, della scoperta che fu il primo a portare alla luce. Non solo, perché il libro di Proctor non è compreso nei 131 titoli (li ho contati) della “Biografia essenziale” e non un solo lavoro o autore tedesco del tempo del nazismo, e della prevenzione in Germania sotto Hitler, è citato nelle 1.026 note (le ho contate) che corredano il libro di Siddhartha Mukherjee. Il nostro autore, premiato anche per la completezza dell’esposizione, non si fa alcuno scrupolo nella parte “Prevenire è meglio che curare” di saltare a piè pari la storia della prevenzione, della medicina preventiva e della ricerca epidemiologica al tempo del nazismo per approdare con un salto politically correct ante litteram nel Regno Unito quando, “nel febbraio del 1947, nel pieno di un gelido inverno, il ministero chiese al Medical Research Council di organizzare un convegno di esperti per studiare l’aumento inspiegabile dell’incidenza dei tumori al polmone e investigarne le cause”. Nel pieno di quel gelido inverno in cui il Medical Research Council inglese vagolava nel buio assieme al governo di quel paese alla ricerca delle cause dell’“inspiegabile” aumento dei casi di tumore al polmone, vale la pena ricordare a Mukherjee, per quanto sicuramente non ce ne sia bisogno, che già da anni l’aumento dell’incidenza dei tumori al polmone non era più un mistero, Franz Müller lo aveva svelato una volta per tutte – pur se non per tutti, visto che, a parte il breve sunto su Jama, del suo lavoro nient’altro trapelò oltre i germanici confini. Tant’è che “i più influenti medici tedeschi erano convinti fin dagli anni Quaranta – cioè un decennio prima dei loro colleghi inglesi e americani – che il fumo producesse assuefazione e fosse la causa principale del tumore polmonare”.
Il regime nazista non fu solo il primo a capire quanto andava capito del cancro. Fu anche il primo a mettere in moto tutti i meccanismi più moderni e innovativi, di cui ci si avvale ancora oggi, per contrastarlo. La nazificazione della ricerca tedesca sul cancro comportò l’esclusione di ebrei e comunisti dai centri della ricerca sul cancro e dall’insegnamento nelle università. E’ del tutto logico pensare che se così non fosse stato avrebbe raggiunto ancor prima i suoi risultati. E tuttavia, anche con queste amputazioni, che del resto operò di buon grado, il regime nazista cominciò con l’ampliare e fornire di nuovi poteri il “Comitato del Reich per la lotta contro il cancro”; creò nel 1935 l’“Istituto generale delle malattie tumorali”; mise al centro della propaganda anticancro la diagnosi precoce; promosse programmi di screening di massa segnatamente per il tumore della mammella e quello del collo dell’utero e per la silicosi e il cancro del polmone tra i lavoratori delle fabbriche; introdusse i medici aziendali nelle fabbriche, “che arrivarono alla straordinaria cifra di 8.000 nel 1944”, attenti segnatamente all’insorgere di tumori legati alle sostanze maneggiate dai lavoratori; istituì “consultori per il cancro” nella maggior parte delle città tedesche sia per rafforzare i programmi di diagnosi precoce che per “illustrare ai pazienti affetti da cancro le operazioni terapeutiche disponibili”; coinvolse medici ospedalieri e medici privati nella registrazione di ogni caso di cancro attraverso appositi registri grazie ai quali ricavare non solo la mortalità ma anche l’incidenza dei tumori, ovvero la frequenza dei nuovi casi di tumore nella popolazione tedesca; si segnalò in modo particolarissimo nella lotta al tabacco con la Lega tedesca antitabacco, l’apertura di centri di assistenza ai “malati da tabacco” e quella di aree per non fumatori nei ristoranti, le campagne di propaganda ad ampissimo spettro, dai manifesti pubblicitari alla radio al cinema, per illustrare i danni del tabacco. Su tutto questo aleggiò sempre, per quanto durò il nazismo, l’invito a uno stile di vita più “naturale” che aveva come obiettivo oltre all’abuso del fumo quello dell’alcol, l’altro nemico dichiarato del regime.
Gli sforzi contro il cancro, tuttavia, rallentarono notevolmente nei tempi di guerra e con il suo protrarsi. Né quegli sforzi misero capo a una ricerca e a una politica contro il cancro segnate da un’intima coerenza interna – stante anche il fatto che nel clima guerresco gli apologeti dell’industria avevano gioco facile, o quantomeno stavano alla pari coi romantici esaltatori dello stile di vita “nature”. Tra prevenzione e cura non si stabilì mai un vero legame funzionale e sempre ci fu chi tirava da una parte e chi dall’altra; per non dire degli sforzi, soltanto moderatamente tarpati, dell’industria del tabacco per restare sulla cresta dell’onda. E mentre si insisteva propagandisticamente sulla medicina naturale con al centro l’esercizio fisico e il consumo di verdure fresche, “i programmatori militari si preoccupavano di immagazzinare migliaia di tonnellate di alimenti in scatola”. Cosicché non sono da sopravvalutare i successi della lotta che il regime ingaggiò contro il cancro, peraltro assai mediocremente documentati. Del resto, chiosa in ultimo Robert N. Proctor, “è improbabile che nazioni che mandano a morte centinaia di migliaia di uomini al fronte spendano un sacco di tempo a pensare ai modi di prevenire il cancro in patria. Lo stesso avveniva negli Stati Uniti, per esempio”.
Qui l’argomentazione di Proctor sembra però perdere coerenza. Negli Stati Uniti la lotta contro il cancro, specialmente sul lato preventivo, non fu affatto così anticipata come in Germania, né raggiunse mai lo stesso livello per ampiezza, programmi e iniziative, consapevolezza. Paradossalmente, riferendoci ad allora, non poteva che essere così, nel senso preciso che non ci poteva essere una vera e propria equiparazione tra Germania e Stati Uniti, tra Germania e le altre democrazie, quanto alle politiche per contrastare la crescita del cancro.
Hitler odiava il fumo; era astemio e vegetariano. E questo indubbiamente giocò un ruolo importante nella guerra del nazismo al cancro. Giocò un ruolo importante l’ideologia della razza, della pura razza ariana, che si avvantaggiava dall’esercizio fisico, un’alimentazione sana, la rinuncia a fumo e alcol, la fiducia nei programmi di prevenzione. Così come giocò un ruolo altrettanto importante la grande linea ispiratrice del nazismo della politica come biologia che culminò nei programmi di eutanasia di bambini minorati e malati mentali, fino alla soppressione sempre più indiscriminata delle vite “non degne di essere vissute”. La concezione mistica del volk, il popolo, il corpo unitario del popolo tedesco, avrebbe in certo senso chiuso il cerchio della necessità di muovere guerra a quel cancro che, nella sua crescita, sembrava volersi opporre proprio al corpo unitario del popolo, indebolirlo, debilitarlo, insidiarlo.
La lotta contro il cancro, ch’era lotta ai fattori e alle cause del cancro a cominciare dal tabacco, era, prima della Seconda guerra mondiale, funzionale agli ideali e ai valori ispiratori del nazismo ben più che non a quelli delle democrazie. Ciò che non casualmente avrebbe consentito che soltanto in Germania, prima di quella guerra, essa si sviluppasse a sua volta come una guerra. Ed è proprio questa “sgradita” consapevolezza che mina in ultimo la coerenza di Robert H. Proctor, allorquando dopo aver illustrato quasi con pignoleria tutto quel che il nazismo fece per battere il cancro si acconcia a concludere che però (a) non produsse grandi risultati (b) declinò con la guerra come successe anche altrove. Con ciò sembrando quasi voler dare ragione, non sapendo di dargliela dal momento che ne scrisse una dozzina di anni prima, a Siddhartha Mukherjee che nel suo “L’imperatore del male” si limita a nascondere sotto un velo di silenzio tutta l’esperienza nazista contro il cancro e i suoi interpreti. Sapendo che nessuno gliene avrebbe mai chiesta la ragione.