Raffaello, “Disputa del Sacramento” (particolare), 1509 (Stanze di Raffaello, Musei Vaticani) 

Elogio della polemica

Giorgio Caravale

Perché politica, cultura e critica hanno perso oggi l’uso del confronto aperto, anche duro, sostituito spesso da polemicucce sterili  sui social network. Eppure la controversia è sempre stata un grande strumento di avanzamento della conoscenza

Pubblichiamo un brano, rielaborato appositamente per il Foglio, tratto dal nuovo libro di Giorgio Caravale, A suon di polemiche. Eresia e controversia dottrinale nella crisi religiosa del Cinquecento (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2024, pp. 270, euro 24). Il libro esce in una nuova collana diretta da Caravale, dedicata a Culture e religioni in età moderna, insieme al primo titolo della collana stessa: Michele Camaioni, Il governo dei pulpiti. Predicatori, potere e pubblico nell’Italia della prima età moderna. 

   


  

Il Cinquecento è stato il secolo delle fratture, l’età in cui la millenaria unità della cristianità è andata in frantumi, il momento in cui nuove confessioni religiose si sono affacciate prepotentemente sulla scena europea costringendo le altre a rinegoziare i propri confini dottrinali. Lo scontro polemico è stato lo strumento attraverso il quale gli uni hanno cercato di mettere in discussione la pretesa verità degli altri, la controversia è diventata da quel momento in avanti il contenitore prediletto del confronto pubblico. L’obiettivo non era tanto convincere l’interlocutore della bontà delle proprie argomentazioni quanto costruire un muro, oggi diremmo identitario, tra sé e gli avversari, chiarendo i propri obiettivi e delimitando il proprio perimetro religioso. 

Come è stato scritto, nessuna religione è un’isola, ciascuna definisce sé stessa in relazione alle altre. Per comprenderne l’essenza non basta dunque guardare quello che propongono, serve anche osservare ciò che esse rifiutano. In un’epoca come il XVI secolo in cui le frontiere delle grandi religioni monoteistiche e gli equilibri interni alle singole confessioni religiose cristiane vacillarono, i protagonisti del dibattito religioso ingaggiarono continue polemiche per dimostrare ai propri accoliti di essere gli unici detentori della verità, gli unici a poterne rivendicare il possesso esclusivo. La polemica religiosa serviva a dimostrare gli errori degli avversari negando loro l’accesso alla salvezza eterna: Islam, ebraismo e cristianesimo si cimentarono in infuocate controversie per rivendicare la superiorità della propria profezia di redenzione. E anche le polemiche intra-religiose, quelle tra cattolici e luterani per esempio o tra cattolici e calvinisti, ruotarono intorno alla rivendicazione di un’unica possibile via all’accoglimento del messaggio divino. 

Non è un caso del resto che il termine polemica, inteso come forma di scrittura (e di oralità) finalizzata al dibattito intorno a idee religiose o filosofiche tra loro confliggenti, sia nato proprio nel Cinquecento. Partendo dalle polemiche religiose del XVI secolo si potrebbe persino raccontare l’intera età moderna attraverso la storia delle controversie: da quella delle Indie sui diritti dei popoli indigeni che oppose Juan Ginés de Sepúlveda a Bartolomé de Las Casas a quella tra Lutero ed Erasmo sull’arbitrio dell’uomo, dagli scontri su scienza e fede che opposero Galileo Galilei ai più autorevoli cardinali romani fino alla nota controversia sul quietismo tra il vescovo francese Jacques Bénigne Bossuet e il teologo François Fénlon, da quella altrettanto celebre tra il giurista e filosofo olandese Hugo Grozio e il giurista inglese John Selden intorno alla libertà dei mari fino alla disputa tra antichi e moderni sul peso dell’eredità classica, solo per citare le più note. Una miriade di piccole grandi polemiche segnò il dibattito pubblico del tempo, in forma scritta o in forma orale, nelle aule universitarie come nei cortili dei conventi, nelle piazze come nei vicoli delle città. La polemica era una forma di linguaggio universale che serviva a dimostrare l’inefficacia delle ragioni dell’altro ma anche a meglio definire la propria identità culturale, politica o religiosa. 

Molti dei migliori controversisti del Cinquecento non furono teologi. Furono uomini religiosi, appassionati conoscitori delle Sacre Scritture, ma non necessariamente ecclesiastici o teologi. Le dottrine da loro difese erano il risultato di tante piccole scintille intellettuali, ciascuna delle quali scaturita dalla lettura di autori molto diversi tra loro oltre che da una personale lettura dei testi sacri. Alcune di queste idee erano riconducibili a una specifica tradizione teologica, per altre essi erano debitori di uno specifico trattato del quale avevano sentito parlare o che avevano letto direttamente. Una buona parte delle loro opinioni scaturivano in modo più o meno casuale dal profondo spirito polemico che li animava. Reagivano istintivamente alle affermazioni dei loro avversari affinando le proprie posizioni nel corso delle dispute che intraprendevano. Come scrisse uno dei più noti tra loro, il domenicano Ambrogio Catarino Politi, il polemista perfeziona i propri strumenti interpretativi e definisce le sue proposte lasciandole scontrare con quelle dei suoi oppositori. Le intuizioni, le acquisizioni, le conoscenze attinte dai libri letti o studiati si rafforzano in lui, fino a trasformarsi in solide convinzioni, proprio in virtù della contrapposizione dialettica alla quale le sottopone. L’apprendimento di un concetto, l’adesione a un’idea non era che il primo passaggio di un graduale processo di autoconvincimento che, attraverso l’appassionata difesa polemica di quell’idea o di quella posizione conduceva al consolidamento delle ragioni originarie di quella scelta. In altre parole, la contrapposizione dialettica era funzionale all’assimilazione di una determinata posizione; senza quel contraddittorio le convinzioni iniziali sarebbero rimaste più deboli o sarebbero addirittura svanite. 

C’è chi distingue tra controversia e disputa polemica: la prima svolta in via scritta, la seconda in forma orale. E’ però una distinzione che non regge la prova dei fatti anche perché, soprattutto nei primi secoli dell’età moderna, scrittura e oralità erano dimensioni strettamente intrecciate. Alcuni polemisti erano apparentemente più inclini a una controversia a mezzo stampa, mettendo però in forma scritta polemiche iniziate oralmente. Altri prediligevano dispute orali che tuttavia si traducevano spesso in forma scritta, o perché i contendenti erano chiamati a mettere nero su bianco le loro idee prima di difenderle pubblicamente oppure perché loro stessi davano seguito agli scontri verbali mettendo per iscritto le idee già espresse oralmente. 

Secondo il parere di molti, la natura stessa della polemica tende ad autoalimentare l’ostilità tra i due contendenti. Nel 1565 il giurista trentino Giacomo Aconcio, autore di un libro di grande successo dal titolo bellissimo ed evocativo Stratagemmi di Satana, scrisse che l’uomo, e non solo l’uomo di potere, era per sua natura “arrogante, orgoglioso, intemperante, avaro, insaziabile, […] soppiantatore, mendace, litigioso, invidioso, vendicativo, omicida, cieco, inconsiderato, ostinato, empio e nato ad ogni delitto”. Era facile dunque che si interpretassero “i fatti altrui in senso cattivo”. L’invidia e il gusto del contraddittorio erano sempre in agguato. Se qualcuno acquisiva “vantaggio o lode”, il suo interlocutore faceva di tutto per “diminuirne le azioni lodevoli”, esagerandone gli “errori”. Se altri osava contraddirlo questi si mostrava “prontissimo all’ira e agli odi”, eccitandosi sempre più “al sangue, allo sterminio, a ogni immane genere di vendetta”. Le controversie dottrinali erano destinate così a moltiplicarsi senza sosta. “Ogni diversità” – scriveva Aconcio – non faceva che accrescere l’odio. Gli “insulti e le accuse” agitavano sempre più gli animi. L’abitudine di confutare la dottrina dell’avversario prima di averla davvero compresa, prima di averla cioè ascoltata “attentamente e pazientemente” con l’intenzione di sospendere “il proprio giudizio fino alla fine”, come sarebbe stato corretto fare, inaspriva poi ulteriormente il clima. L’uno e l’altro contendente, accecati dall’odio e dall’ira, anticipavano le parole dell’interlocutore pretendendo di “aver indovinato dalla prima parola quello che l’altro voleva”, facendo così in modo che “mentre quello vorrà una cosa”, lui intanto “ne avrà capita un’altra e non confuterà gli argomenti dell’avversario ma quelli che si sarà costruito da sé con la sua temerità e la sua falsa interpretazione”. La perversa spirale di “parole acerbe, insolenti, piene di ingiurie e, magari, anche di minacce” innescate da questa dinamica rendeva quasi impossibile riportare la polemica religiosa sui binari della correttezza di giudizio. “Un animo perturbato”, scrisse Aconcio, “non può né intendere né giudicare rettamente”. La superbia, l’arroganza e il disprezzo rendevano molto difficile riconoscere i propri errori. Una spirale senza fine in cui gli animi si scaldavano e ciascun contendente, ormai accecato dall’ira, ricorreva ad argomenti che neppure si sarebbe sognato di utilizzare, aumentando così la distanza che lo separava dalla “verità” e a un tempo dal suo interlocutore. 

L’autore degli Stratagemmi di Satana forniva però ai suoi lettori anche l’antidoto alle “insidie” del diavolo nascoste nelle pieghe della controversia. Occorreva che gli animi fossero distolti “dalle questioni minute e di nessun valore”, concentrandosi piuttosto su un ristrettissimo nucleo di argomenti destinato auspicabilmente a ridurre, fino quasi ad annullare, le differenze dottrinali tra le diverse confessioni religiose. Soprattutto, per sfuggire alle diaboliche trappole della disputa polemica occorreva ascoltare pazientemente, dotarsi di un animo sereno e tranquillo, vestirsi di una modestia ammantata di dolcezza e mansuetudine. Come dare torto a Giacomo Aconcio: ascolto, pazienza e mansuetudine sono gli ingredienti necessari per rendere il confronto civile e costruttivo. A volte però, oserei dire troppo spesso, il fuoco della polemica trascina con sé anche i più tranquilli tra gli interlocutori, trasformando il dibattito in una bagarre senza regole.

Chi scrive ritiene che non bisogna avere paura del confronto polemico. Come affermavano già i più acuti tra gli uomini del Cinquecento, la discussione critica svolge infatti una fondamentale funzione di stimolo e chiarificazione di concetti altrimenti dati per scontati. Quando non è messa in opera per annichilire l’avversario, la polemica non è insulto gratuito, gusto sadico, molestia, tormento, neppure perdita di tempo o vanità al servizio di qualche vuota retorica. Essa è piuttosto raffinata tecnica di autocontrollo: serio, arguto, ironico scontro dialettico volto a innalzare il livello della sfida, a disvelare e smentire gli argomenti dell’avversario riconoscendone però il valore. E’ il tentativo di prevalere sulle tesi dell’interlocutore elevando moralmente e retoricamente i temi del dibattito in corso. La polemica ai suoi livelli migliori è un duello in punta di fioretto con le sue regole e i suoi tempi, un confronto verbale o scritto che nobilita chi lo conduce. Qualcosa insomma che aiuta a illuminare di luce nuova le idee del tempo.

Il ritmo della polemica intellettuale ha scandito la scena culturale, letteraria e politica del Novecento. Oggi invece assistiamo, a volte in qualità di spettatori attoniti, altre volte nelle vesti di complici riluttanti, alla marea montante di sterili, violente, insultanti piccole polemicucce che affollano l’universo dei social network, impantanato in una guerra di tutti contro tutti. Sembra quasi che il tasso di litigiosità digitale si muova in direzione inversamente proporzionale a quello dell’aperto, franco scontro intellettuale. E che l’unica reale alternativa a quel fastidioso ping-pong fatto di tweet taglienti e provocatori sia il silenzio. Sembra che l’antagonismo culturale, la disputa tra autori, la critica letteraria, siano state sostituite da forme molto più silenziose (e ambigue) di sanzione o di approvazione. Se un libro non piace, lo si ignora. Se non viene riconosciuto come proveniente dal proprio gruppo di appartenenza lo si relega nel dimenticatoio. Il peggior anatema che il mondo intellettuale e accademico italiano riserva ai libri non graditi è la non recensione. 

Tutto ciò impoverisce il dibattito intellettuale e politico del paese. Le pagine culturali di giornali, settimanali e mensili, ma anche le riviste accademiche e scientifiche, non possono avere solo un ruolo di informazione, promozione e celebrazione, come spesso accade, limitandosi a ignorare i corpi estranei. E’ ora che gli uomini e le donne di cultura tornino a praticare il terreno dello scontro intellettuale senza paura di alienarsi l’amicizia dei loro interlocutori o, all’opposto, di tradire l’amicizia del proprio gruppo di riferimento: distinguendo sempre tra idee e persone, tra il merito delle questioni e l’empatia (o l’antipatia) nutrita nei confronti degli autori, evitando cioè di personalizzare il confronto, rimanendo saldamente ancorati al piano delle opinioni. Se fondata sul rispetto reciproco e su argomentazioni solide, la controversia può essere uno straordinario strumento di avanzamento della conoscenza, oltre che un mezzo molto efficace e accattivante per comunicare a un pubblico più ampio le proprie idee.

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