La collina del Vomero, a Napoli, vista da Capodimonte (foto Ansa) 

luoghi che cambiano la vita

Dal paese a Napoli, tutta un'altra vita

Ester Viola

Era una cosa enorme, potente e sul mare. Napoli bisognava dirlo con la A larga, larghissima, e in quella A ci entrava tutto il golfo. Luzzano invece, mille abitanti in mezzo alle montagne, pareva un cimitero di vivi

Luoghi che ci hanno cambiato la vita. Luoghi che ci possono cambiare la vita. Luoghi che ci cambieranno la vita. Inizia la nuova serie estiva del Foglio.

 

Napoli. Napoli la conoscevo solo perché c’erano i dottori buoni. Non si facevano gite di piacere, a Napoli, solo visite mediche. Era troppo lontana e non si trovava mai parcheggio. Era la grande città più vicina e siccome non ci andavamo mai pareva ancora più grande. 


Zia Rosetta abitava al Vomero, il quartiere collinare. Il Vomero lo pronunciavano a bocca piena, da noi a Luzzano. Con un accento di prelibatezza e aristocrazia, ’o Vommero, così mi immaginavo questo pezzo di Napoli ancora più importante, altissimo, che svettava sopra tutti gli altri quartieri e faceva ombra, specialmente ai quartieri poveri, che nella mia testa erano molto poveri e perciò per forza erano più tristi. Al Vomero invece vivevano le persone notabili, anche i parenti miei. Napoli era una cosa enorme, potente e sul mare. Napoli bisognava dirlo con la A larga, larghissima. In quella A ci entrava tutto il golfo. Sfidava il vulcano e sfidava tutto il mondo, anche grazie a Maradona. 


La difendevano due castelli, il castel dell’Ovo e il Maschio Angioino. Che le poteva succedere? Niente. Napoli era una città resistente a tutte le calamità, sfidava gli eventi. Napoli aveva cacciato i tedeschi prima di tutti, se ne era liberata in mezza settimana. Gli alleati la trovarono già pulita, il popolo aveva fatto da solo. Adesso c’è anche una piazza intitolata, si chiama piazza Quattro Giornate. C’è un nome più bello di piazza Quattro Giornate? 

 

Al mio paese invece non succedeva mai niente, le quattro giornate erano 365 tutte uguali. Era fatto di scarrupizi, muri rotti ammalati e nudi. Come tutta l’Italia di provincia da Roma a scendere fino alla Sicilia, negli anni 80 l’intonaco esterno era considerato lusso di alta architettura, una spesa inutile. 

 

Pareva un cimitero di vivi, ma pure i vivi non è che avessero tutta questa voglia di campare. Luzzano, mille abitanti in mezzo alle montagne, guardavi l’orizzonte e c’era solo un’altra montagna. Verde, verde, altro verde.


Ricordi d’infanzia entusiasta solo uno, quel che avevi da attendere e desiderare da piccolo, accadeva intorno al 20 agosto, era la festa del santo. Lì potevi trasformarti in un bambino molto felice perché c’erano le giostre, le bancarelle, le allumate ed era pieno di gente dappertutto. Tanti forestieri. La festa del santo era quando il paese ti sembrava un posto importante, dove tutti volevano stare, durava quattro giorni, dal mercoledì al gran finale del sabato sera, processione in onore di Sant’Antonio con fuochi d’artificio. La domenica successiva, finita la festa, si scatenava immancabile il primo e più funesto temporale della stagione. La pioggia d’estate quando l’estate inizia a scricchiolare e chiama settembre.


Quel temporale era accompagnato da una nenia che sapevo a memoria, la frase “prim’acqua aust’, è vierno”. La prima acqua d’agosto, vuol dire che è inverno. Di solito la sentivo da Lucia, la nostra vicina di casa. La ripetevano tutti, per tutto il giorno, in paese. Dal salumiere, dal fruttivendolo, dal tabaccaio che mi vendeva le figurine e mi dava il resto in caramelle gommose. Pioveva e smontavano le luminarie, pioveva e se ne andavano le bancarelle, pioveva e i parenti rimettevano le valigie sulle macchine per scappare via.


La prima acqua d’agosto, è inverno. Ricordati che devi morire. La stessa cosa. 


Non so dire la tristezza che si portava appresso quella prima acqua di agosto. Odiavo quelle parole, e le aspettavo sempre. E come sempre, quelle arrivavano. Ci sono frasi che da bambino risuonano nella testa come incubi. Quello era il mio. Con la prima pioggia la gente se ne va, arriva la disperazione, e il buio. Dopo la bella stagione non poteva capitarti altro, in quel posto, che il cattivo tempo. Eri perduto, saresti morto di oscurità.

 

Ma non era solo il segno dell’autunno, quel temporale. Era una rassicurazione per tutti noi paesani che non sbagliavamo, a essere pessimisti. Era proprio un modo – catastrofico, nero, votato al peggio – di vedere le cose, di guardare al giorno dopo come a un nemico, di volersi difendere perché tutto minaccia. Tutto ce l’ha con noi, proprio con noi. Il vangelo di proverbi di quei posti è fondato sul dovere di difesa. Devi difenderti dal prossimo tuo per salvare te stesso. La summa è il Chi te sape t’arape, chi ti conosce ti apre, nel senso di “chi conosce le tue abitudini finirà per rubarti in casa”, metaforicamente  e no.


Se devo immaginare la traduzione pratica del pensare male, eccola. Lei e sua madre sono questo: pensano male, pensano solo al male, immaginano solo il male. Peggio, non al male ma a quello che è il male secondo loro. Lo sospettano dovunque, lo vedono. Anzi, lo prevedono. Non penso alla fatica che fanno a vivere così.


Accade che certi libri, molto più di altri, mettano in ordine pezzi di esistenze con un lavoro preterintenzionale che l’autore manco si sognava. Scritture che rivelano, che tirano fili. C’entra sicuramente, con questa idea di letteratura utile, l’essere lettori ingenui e convinti che qualcuno scriva anche per istinto altruistico. Lo scrittore samaritano. Cose da fessi, dicono bene, non si deve leggere così. E tuttavia succede che nell’ultimo libro imprendibile e magnifico di Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, la madre terribile che racconta sia della provincia di Benevento, dello stesso svincolo di strada provinciale che porta al mio paese.  


Lungo la strada che da Napoli porta al suo paese si trova “la stretta di Arpaia”, una salita che attraversa l’abitato. Niente più di una gobba d’asfalto abbastanza erta e piuttosto lunga, ma quando i viaggi in macchina erano avventure la si evocava con timore: le automobili andavano in ebollizione e si fermavano per non ripartire più, trovarsi davanti un camion che procedeva lento, a strappi, avvolgendo le auto al seguito in una nube di scarico nera, era un’eventualità malaugurata ma non rara. I bambini vomitavano.

 

Angela e sua madre evocano la stretta di Arpaia come se si stesse appressando Capo Horn, la loro ansia cresce quando siamo nei pressi e respirano di sollievo quando ce la siamo lasciata alle spalle. E lo stretto di Drake delle famiglie in gita, anche se angustia solo quelle che partono per una destinazione poco alla moda e ignota ai più. Senonché un giorno, sarà stato verso metà degli anni Novanta, quando tutte le piccole patrie, anche le più dimenticate, a una a una rialzano la testa, in cima a quella statale poco frequentata dove le vetture moderne ormai planano con una sgasata silenziosa, nel punto in cui la via lascia il paese e piega in mezzo alle montagne, compare un cartello: IN QUESTO LUOGO L’EROICO POPOLO DEI SANNITI PIEGÒ LE LEGIONI DI ROMA. FORCHE CAUDINE, 321 A.C.


L’io di quel libro si impegna in un’impresa: c’è un figlio che prova con cuore limpido, con una generosa fissazione, a spiegarsi le tare, i guai, i pipistrelli che stanno nella testa di Angela, la madre. Cresciuta nutrendosi di centinaia di frasi fatte e maligne. Frasi che erano un’Iliade di tradizione orale che si stampava nella testa e non se ne andava. Un doposcuola continuo.


Sono tutte brevi leggi del vivere costruite sulla diffidenza e sul pericolo, un veleno antico e distillato. Lo stesso che in gradi minori sta in quella “prima acqua d’agosto, è inverno”, e che dice: andrà tutto male, sempre, senza scampo. Nessuno si salverà né oggi né mai, non provateci.  Mi sono chiesta se non sia un carattere collettivo, e se lo è, da dove viene. Benevento, il Sannio.


La parte terza riferisce della fama del luogo maledetto “appò i Stregoni, e Maghi di tutto il Mondo” [107], nonché di strani casi, prodigi e apparizioni lì verificatisi. L’autore inserisce alla fine di questa sezione sette gustosi exempla di leggende e dicerie riguardanti le streghe o il Noce beneventano, citando il Tractatus de hereticis et sortilegiis di Paolo Grillando oppure riprendendo la propria redazione latina. Infine, l’ultima parte individua con precisione l’ubicazione dell’antico Noce e narra l’inquietante leggenda secondo la quale molti altri simili alberi siano cresciuti spontaneamente poco lontano, originandosi per intervento diabolico dalle radici del primo. L’autore fa poi un discorso eziologico: perché le streghe si radunano più qui che presso altri luoghi? E perché esse sono donne piuttosto che uomini? (A. Oliva. Le Streghe di Benevento: La leggenda della Superstitiosa Noce, Caravaggio Editore).


Sarà stato forse il trattamento che le era toccato in sorte, da terra maledetta? L’essere stata scansata e temuta da tutti, per secoli? Può darsi. In ogni caso, carattere collettivo o no, streghe o non streghe, alla fine della scuola me ne andai a fare l’università a Napoli, dove pioveva pochissimo. L’estate finiva a dicembre e tornava a marzo. I proverbi di Luzzano a Napoli non funzionavano proprio, a cominciare dalla prima acqua di agosto che lì da loro non voleva dire niente.

Napoli. Di Napoli gli scrittori fanno il romanzo che vogliono, ripetono che è diversa dalle altre città, la cosa garba parecchio e poi editorialmente funziona. Chi parla per spiegarla perde. E nessuno che la conosce la spiega perché appena provi a spiegarla, Napoli diventa un film, una canzone o la solita cartolina. E riesce tutto benissimo, è un gran successo ogni trovata, per questo si continua.
Napoli mi cambiò più a coppini che a carezze. Mi chiedeva di non strafare, di evitare i fronzoli. Mi invitava a essere veloce, a passare appresso, a perdere la posa da ferita nell’orgoglio. Da vivere a diventare una barzelletta è un attimo, in quella città. Napoli fu un’educazione. 


Mi presentai all’esame di economia, avevo quasi vent’anni, con tre penne per disegnare i grafici. Rossa nera e blu. Era titolare di cattedra un professore rispettato, uno di quelli coi libri pubblicati da Giuffré.


“A che le servono ste’ ppenne?”, quello fu l’inizio dell’interrogazione.


“Per disegnare i grafici, così le curve diverse si distinguono meglio” risposi tutta impacchettata, compitissima, pronta per un bel voto.
Il professore, assicurandosi che la voce fosse abbastanza alta per essere sentita dall’intera  commissione in cattedra, esclamò: Aè, a signurina s’è portata gli effetti speciali! - tutti a ridere. Sofferente e umiliata continuai, i grafici li disegnai solo con la penna nera, presi un voto bassino, pensando che il mondo, la facoltà di Legge, la vita e Napoli ce l’avessero con me. 

Restai per anni incline al risentimento, come tutti i complessati. L’avvocato da cui lavoravo, nel primo periodo del praticantato, mi ripassava di rampogne a ogni sbaglio. Dopo i rimproveri mi guardava, mentre non gli parlavo, nel silenzio dei giusti, degli apertamente maltrattati, nel mutismo ricattatorio di chi dice: è colpa tua.  Ci ricavavo, da quei pomeriggi di impercettibile rappresaglia, un sorriso napoletano di doppia beffa, che culminava con un no della testa e una diagnosi per me: “Ester, lei è proprio montanara”.


E in quel montanara, ho capito dopo, c’era Napoli. Che m’avrebbe salvato il carattere, ma a una condizione: dovevo farmi salvare. Quel che c’era da capire, e si doveva capirlo alla svelta, è che fuori non sono tutti nemici nostri, o meglio lo sono,  ma come si fa ad affrontarli così, senz’allegria?


Sullo stesso bituminoso rattoppo, dormiva nella primavera del 1924 don Saverio Palumbo, un vecchio contadino trasformatosi, per dispiaceri intimi, in uomo della riviera. Accettava qualche soldo in cambio della sua storia, si nutriva di pesciolini o di molluschi sfuggiti dalle ceste dei pescatori, e aspettava con pazienza che le giornate e la sua vita finissero. Il suo consiglio era: non fate mai niente per opporvi a niente. Diceva: “Avete malattie? Debiti, corna, pene di qualsiasi genere? Per carità, teneteveli”. Don Saverio credeva fermamente che delle disgrazie non ci si possa disfare: chi le ha riesce soltanto a barattarle, ma in pura perdita, ma sempre e inevitabilmente rimettendoci. Il vecchio Palumbo, per pochi soldi, mi rivelò i motivi che lo avevano indotto a farsi “luciano” dopo cinquant’anni di zappa. Disse: “Coltivavo un mio terreno a Casoria in grazia di Dio. Nel ‘18 mia moglie era incinta: le venne un capogiro proprio mentre attingeva acqua dalla cisterna, io ero troppo lontano per sentirla. Mi restò Giovannino, di otto anni. Decisi di badare esclusivamente a lui, gli misi i libri in mano e forse ne avrei fatto un professore. È una parola. Tanto valeva, allora, che gli campasse la madre. Un giorno una gamba di Giovannino si incanta, i dottori di Casoria non ci capivano niente, lo portai col carretto qui, all’ospedale di Gesù e Maria. Risultato: o una costosa operazione o Giovannino sarebbe rimasto zoppo. Era il caso? Vendetti la terra, pagai e dopo tre mesi, con lo stesso carretto, andai a riprendermi il bambino. Sarò un bracciante, pensavo, ma mio figlio è sano. Ebbene non era un discorso da farsi. Oppure bisognava resistere al sonno che mi venne. O Dio sa che cosa”. Qui il racconto di don Saverio precipitava. La strada di Casoria, a mezzanotte, che non finisce mai. Giovannino e il padre si addormentano, finché un secondo carro li raggiunge, sovraccarico di legna. La reciproca ombra spaventa i cavalli, che scartano; i mozzi delle ruote si urtano, un tronco precipita sul bambino e lo uccide. Da allora don Saverio odiò la campagna, discese al mare e stava sulle terra dei Circoli Nautici, accessibili con un passo da via Partenope. Diceva: rispettate il cane per il padrone, non rifiutatevi alle disgrazie che Dio ha scelto per voi. Visse finché non trovò il tifo, in una vongola. (G. Marotta, L’oro di Napoli, Rizzoli).


Che cos’ha davvero Napoli? Una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza. E’ l’oro di Napoli questa pazienza. Marotta aveva ragione. Qui c’è una qualche destrezza a smarcarsi dagli scherzi della vita che agli altri manca. Sarà per quello che Lucio Dalla studiava napoletano tutte le settimane?

Sono dodici anni che studio tre ore alla settimana il napoletano, perché se ci fosse una puntura da fare intramuscolo, con dentro il napoletano, tutto il napoletano, che costasse 200 mila euro io me la farei, per poter parlare e ragionare come ragionano loro da millenni.

Quella di Napoli è una pazienza felice. Una pazienza con il risultato. Storta va deritta vene dicono sotto il Vesuvio. Se comincia storta vuol dire che si raddrizza. Mai preoccuparsi troppo dei fati avversi, del pànteco, che è quell’ansia che ti prende sotto il costato ogni tanto. La benedizione che c’era da prendere io penso di averla presa, da tutti gli anni passati a Napoli. La prima acqua d’agosto passa. Si sistemeranno le cose, le cose tendono a sistemarsi perlopiù, o non saremmo neanche vivi. 

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