Herbert James Draper, “Pot pourri”, 1897 (Wikipedia) 

Trame d'amore

Perché le più giovani impazziscono per il romance

Donatella Borghesi

Un modo per esorcizzare le brutture di ogni giorno. Ma non chiamateli romanzetti

“Quanti romance puoi vivere in 4 settimane?”. Così recita il claim della campagna delle librerie Feltrinelli per l’estate. Segno che il romance – genere letterario che spopola tra le giovanissime della generazione Z – è entrato ormai nei canoni. E sembra avere anche un valore in più: lo vivi, lo fai tuo, si intreccia  alla tua vita. Aiuta a vivere, sembrano dirci le ragazze coinvolte in questa passione che si traduce in passaparola, gruppi di lettura, partecipazione alle piattaforme che raccolgono i bestseller ma anche i libri autoprodotti, che poi a loro volta vengono acquistati dalle case editrici.

 

Una passione per la lettura e la scrittura che passa da internet: 138 miliardi di visualizzazioni per l’hashtag #BookTok

 

Sì, perché le ragazze non solo leggono, scrivono: hanno imparato a farlo sui social, nei blog. Scrivere sembra diventato facile, accessibile, è l’evoluzione del diario personale, che incontra quello della moltitudine delle altre follower. Un fenomeno sociale ed editoriale nato dopo la prigionia forzata del Covid, quando il piccolo schermo del cellulare era l’unico mondo percorribile. Oggi il fenomeno è così diffuso da essersi meritato uno spazio al Salone del libro di Torino 2024. I numeri sono impressionanti: l’hashtag #BookTok ha avuto 138 miliardi di visualizzazioni a livello mondiale, 2 miliardi per #BookTokItalia. E Robinson, il supplemento culturale di Repubblica, ha dato spazio all’operazione: una gara tra i giovani lettori per individuare il libro più amato, e pubblicare la propria recensione. Una comunità che ha avvicinato alla lettura i giovanissimi, una scelta che di fatto premia soprattutto le scrittrici del genere, che riescono a restare in classifica dei libri più venduti per anni, come è successo con Fabbricante di lacrime a Erin Doom, pseudonimo di un’italianissima ragazza, o l’americana Colleen Hoover, la regina del genere.

 

Vogliamo che l’amore non ci faccia male, sembra il messaggio che lanciano queste autrici. E recuperano il più antico modello di letteratura femminile

 

Ma come mai le nostre ragazze Z sono diventate consumatrici entusiaste di questo tipo di narrativa, che a noi ragazze del secolo scorso sembra una stranezza frutto dei social e dell’industria editoriale in crisi? E se fosse un ritorno al passato, un rituffarsi nella melassa del sentimentalismo? Oppure un andare oltre il femminismo, ormai assimilato? Ma le due cose possono stare insieme? Ci provo, a rispondere: offrono una trama semplice che ruota attorno all’amore e alla confusione dei sentimenti, insieme alla rivendicazione dei sogni e alla lotta per realizzarli, alla fiducia nel superare gli ostacoli, alla speranza di un lieto fine. Bingo. Vogliono almeno nella lettura trovare tutto l’ottimismo possibile per esorcizzare i mostri che devono affrontare ogni giorno quando escono di casa: il linguaggio sessista, le molestie per strada, il bodyshaming, l’incubo della pillola dello stupro, ovvero la suprema perdita di coscienza e di identità. Vogliamo che l’amore non ci faccia male, sembra il messaggio che ci lanciano. E per dirlo recuperano il più antico modello di letteratura femminile.  


Romance infatti non vuol dire romanzo, che in inglese si chiama novel, ma narrazione prettamente sentimentale, possibilmente a lieto fine. Una distinzione che risale indietro nel tempo, se è vero che se ne era già occupato il grande narratore di storie epiche Walter Scott, quando nel 1815 era uscito Emma di Jane Austen, per molti l’eccelsa antenata del romance. D’altra parte l’assonanza della parola porta inevitabilmente al romanticismo. E qui si affaccia il tema controverso della scrittura femminile in senso lato. Non a caso proprio con il boom del romance si è riaperta l’eterna querelle su che cos’è la scrittura femminile e che rapporto ha con la letteratura, accademica o meno (ricordiamoci sempre di quando Elsa Morante e Natalia Ginzburg non volevano essere chiamate scrittrici ma scrittori per timore di essere discriminate…). La miccia l’ha accesa la rivista online Doppiozero, con un articolo di Gianni Bonina dal titolo Il grado zero del romance. La sua analisi parte dalla considerazione che nelle classifiche dei libri più venduti restano per mesi e mesi titoli di autrici – cita come caso esemplare La portalettere di Francesca Giannone, per di più al suo esordio – che hanno un impianto sentimentale: “Una volta detto intimista o intimo, per distinguerlo dallo storico e dal sociale, il romance mutua soprattutto il romanzo rosa e si connota oggi per il suo target palesemente femminile. Di qui la tendenza che si sta facendo strada di una narrativa italiana di genere prodotta da donne e a loro destinata (…) Vuoi vedere che il segreto del buon romanzo era proprio là dove la tradizione teneva separati i generi?”. Pur considerando le autrici “le regine della narrativa del nostro tempo”, e pur riconoscendo la sovversione creativa da loro operata dei canoni letterari – con memoir, autofiction e la mescolanza di narrativa e saggistica – il critico mette insieme forse un po’ troppi nomi, addirittura l’intoccabile Elena Ferrante. Tanto da suscitare l’ira delle scrittrici, per tutte Giulia Caminito, tra le nostre giovani autrici più talentuose. Le donne non sanno scrivere d’altro che d’amore, per fortuna, è stata la sua risposta pubblicata su Letterate Magazine. “Il mal d’amore non va confuso con il semplice anelito all’altro, con la ricerca dell’amore romantico, con la voglia di unirsi a un uomo, ma va letto come bisogno sociale, bisogno che le donne hanno avuto e ancora oggi hanno culturalmente e socialmente di essere amate, di essere riconosciute, di essere soggetti in quanto amate”, scrive Caminito. “La donna ha sofferto per secoli di un posizionamento sociale non solo svantaggioso ma anche violentemente escludente, in cui la relazione con l’uomo spesso era l’unica fonte di visibilità possibile. Se eri amata, allora esistevi. Non è questo che ci racconta Jane Austen? Non è questo che ci racconta Alcott, non è questo che ci racconta Katherine Mansfield quando parla della galera che era il matrimonio borghese e ci fa apparire le sue donne tragicamente felici perché amate e poi tragicamente infelici perché abbandonate o tradite? Non è questo che racconta con grande precisione proprio Elena Ferrante ne I giorni dell’abbandono?”. 
L’avvocato Agnelli diceva che “si innamorano solo le cameriere”. Questo la dice lunga sulla considerazione dei maschi alfa di tutti i tempi sulla presunta e per loro molesta sentimentalità strabordante delle donne. E di conseguenza sulla scrittura femminile, che appunto i sentimenti esalta, enfatizza. Tanto da essere considerata per secoli letteratura di serie B, a prescindere dal suo eventuale valore. Da guardare con benevolenza, visto che non sia mai che diventi una gallina dalle uova d’oro. Se c’è un dato di realtà è che il mercato editoriale oggi è sostenuto principalmente dalle donne. Che leggono molto più degli uomini, e leggono anche i libri scritti dai maschi, cosa che non può dirsi reciproca. E scrivono e scrivono, corteggiate, cercate e sostenute dalle case editrici. La tendenza inarrestabile da anni si è riversata anche nei premi letterari: nelle ultime edizioni dello Strega, giusto per citare il più importante, nella cinquina prevalgono i titoli a firma femminile, anche quest’anno tre su cinque. 

 

Nel ’900 trionfa il “rosa”, in Italia insuperabile Liala. Poi gli Harmony, e negli anni 90 i “chick lit”, insieme all’ondata “Sex and the City”

 
Ma proviamo a vedere cosa c’era prima del romance. Nell’Ottocento c’erano i manuali di buone maniere per giovinette (ma di nascosto piangevano Madame Bovary e Anna Karenina e si identificavano con Piccole donne e le eroine di Charlotte ed Emily Brontë), poi con il Novecento trionfa il “rosa”, in Italia insuperabile Liala. Nel secondo dopoguerra appaiono i fotoromanzi – perfino Noi Donne, lo storico mensile delle donne di sinistra, dopo lunghe discussioni (c’era chi li considerava “per servette”) li aveva addirittura prodotti, come racconta Gisella Modica nel bel pezzo Il sogno d’amore pubblicato su Letterate Magazine. Poi a rinverdire il “rosa” sono arrivati i multinazionali Harmony, che hanno rappresentato a lungo lo zoccolo duro del romanzo sentimentale, sdoganando il sesso. Dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna nei globali anni Novanta appaiono i chick lit (anche qui il linguaggio non è certo benevolo, chick sta per “pollastrella”), contemporanei dell’ondata Sex and the City, che sanciva la libertà sessuale, la rottura del soffitto di cristallo, la complicità femminile. Due nomi per tutte Sophie Kinsella e Edith Fielding, l’inventrice di Bridget Jones. Oggi editoria, cinema e soprattutto le serie tv delle grandi piattaforme – vediamo in questi giorni il successo intergenerazionale di Bridgerton – si omologano al nuovo sentire delle donne.

 

Ma arrivati all’ultima pagina, cosa resta delle complessità di una storia? La letteratura non ha il compito di rassicurare, ma di aprire finestre

  

Ritorniamo alle nostre ragazze post romantiche, le ragazze che giustamente amano esibire la loro libertà. Le ragazze dai lunghi capelli, le unghie finte dipinte come piccole opere d’arte, il piercing all’ombelico e i calzini con le ciabatte. Le ragazze che con i ragazzi vivono una fluida parità, che impugnano il megafono alle manifestazioni, che vivono un corpo a corpo con sé stesse per tirare fuori tutta l’autostima possibile e non cadere in depressione, visto il futuro così incerto che le aspetta. Ho provato a leggere un “loro” romance. Me lo sono trovato in casa, portato da mia nipote. E’ It ends with us. Siamo noi a dire basta, di Colleen Hoover, edito da Sperling & Kupfer, bestseller assoluto, pubblicato in 29 paesi e presto anche un film. Un tempo si sarebbe detto un romanzo a tesi. Oggi lo definirei un romanzo pedagogico, perché vuole indicare la strada “giusta” per star bene con sé stesse e tutelare la propria libertà. La protagonista Lily Bloom ha avuto un pessimo padre, non è riuscita nemmeno a pronunciare per lui l’orazione funebre, cosa che la madre le rimprovera. Dopo un primo amore, incontra un affascinante e ricco neurochirurgo (chissà perché sempre in divisa da sala operatoria), ma allergico alle relazioni. Riesce a conquistarlo e a sposarlo. E anche ad aprire un negozio di fiori, il suo piccolo sogno. Ma, ma… Lui non è il devoto marito che sembra, esplode imprevista la violenza. Con scuse reiterate e accolte, lui la ama, certo. Non è facile per Lily uscirne, ma ce la fa. E’ una storia esile e molto prevedibile, con tutti gli stereotipi al posto giusto e una narrativa a colpi di scena soft. L’obiettivo dell’autrice è far riconoscere la lettrice nella protagonista, sui temi obbligatori di oggi. Senza ricorrere al detestato politicamente corretto, come non parlare di amori tossici, di maschi violenti, della loro incapacità di superare i classici ruoli? Ma arrivati all’ultima pagina ti chiedi cosa resta delle complessità di una storia. Quelle complessità che devono rimanere aperte, che stupiscono, animano e nutrono. La letteratura non ha il compito di rassicurare, ma di aprire finestre, anche problematiche, disturbanti. Come hanno fatto e continuano a fare le grandi scrittrici. Letteratura e “rosa”, qual è il confine? Proviamo a parlarne con la critica letteraria Liliana Rampello, studiosa di Virginia Woolf e di Jane Austen. A quest’ultima ha dedicato il saggio Sei romanzi perfetti (il Saggiatore) e ha curato il Meridiano Mondadori con i suoi primi tre romanzi, a cui seguirà presto il secondo. “Sfatiamo il mito del lieto fine dei romanzi di Austen. Il compimento della trama permette lo scorrere della narrazione, ma il tema autentico e originale è quello della formazione di una giovane ragazza, che passa da una vera e propria analisi e autoanalisi dei sentimenti, alla luce delle condizioni economiche e sociali del suo tempo. Jane Austen, con intelligenza lucida e arguta, legge in profondità le dinamiche di classe e dei rapporti tra uomini e donne, e orchestra la sua trama in ragione sì dell’amore (e del matrimonio), ma inteso non come un semplice sentire, una passione, ma come un complesso di emozioni che entra in gioco con tutte le altre relazioni. Interpretare il proprio tempo significa in Austen – come in ogni grande artista – intuire quasi profeticamente molti dei cambiamenti in essere, anche se nascosti. E qui c’è il nodo fondamentale, la differenza tra un buon artigianato narrativo e la potenza stilistica della scrittura letteraria, cosa che vale anche per le categorie di genere”. E i romance, che posto occupano? “Se sono un accesso alla lettura, sono un bene. Ben venga se questa narrativa aiuta a uscire dagli amori tossici, ma attenzione agli stereotipi: la letteratura, la scrittura autentica cerca, interroga, non conferma la realtà, ne agita le acque in profondità, ci trasforma”. E se l’autotrasformazione fosse non solo nella lettura ma anche nella scrittura? E’ questa forse la grande novità del romance bifronte, di fatto il suo futuro. La esprime bene ancora Giulia Caminito, in un frammento sui social: “Io a vent’anni di romance ne ho scritti vari, mai pubblicati, e mi sono divertita parecchio. Lo rifarei. Lo rifarei perché mi sento stanca e insofferente al dovermi sempre preoccupare di essere considerata abbastanza valida letterariamente, a sufficienza impegnata, tanto ben posizionata, soprattutto in quanto donna. Ho sempre scritto quello che mi andava di scrivere, spesso per solitudine mi sono fatta compagnia con le mie storie. Mi hanno salvata e mi salvano. Il romance è morto, evviva il romance!”.

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