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LO STATISTA MODERNO /2

Winston Churchill, il leone indomito

Carlo Nordio

Churchill fu il primo a capire il pericolo di Hitler, che aveva una ferrea logica nella sua follia. Ne aveva letto il “Mein Kampf”, e sapeva che sarebbe potuto diventare la miccia nell’esplosivo rancore tedesco

Il prossimo 30 novembre saranno 150 anni dalla nascita di Winston Churchill, primo ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 e dal 1951 al 1955. Abbiamo chiesto a Carlo Nordio, ministro della Giustizia e appassionato di Churchill, di scrivere quattro puntate sulla storia dell’ex primo ministro inglese per il Foglio. La prima puntata, “Churchill eroe di guerra”, è uscita mercoledì 3 luglio.
 



Quando, nell’estate del 1914, tuonarono “i cannoni di agosto”, la Royal Navy era la più numerosa e potente del mondo. Tuttavia, agli inizi del decennio, la Germania guglielmina aveva intrapreso una politica di preoccupante armamento  navale che  suonava come aperta provocazione all’Impero britannico. Gli inglesi  traevano dagli oceani la loro stessa sopravvivenza, mentre i tedeschi erano sempre stati interessati essenzialmente alla loro  supremazia continentale. Consapevole del pericolo, Churchill appena nominato Primo lord dell’Ammiragliato, rimodernò integralmente la flotta. All’inizio del conflitto, il “Britannia rule the waves” poteva ancora essere intonato con piena giustificazione.
 

Le due marine, all’inizio, si studiarono con prudenza. Le formidabili corazzate del Kaiser rimasero nei porti, guardate a vista da quelle della Home Fleet. Vi furono alcuni scontri marginali, dove gli inglesi ebbero la meglio. Ma se il  mare del Nord era per il momento tranquillo,  Churchill fremeva di impazienza. Era un leone che sfoderava gli artigli, non un gatto che gioca col topo. Di fronte all’inerzia del nemico, elaborò nuovi piani. Il più temerario fu Gallipoli:  costò agli Alleati molte vite, e a Churchill la carica. L’idea in sé non era campata in aria. La Turchia era entrata in guerra a fianco della Germania, e il fronte orientale subiva un’enorme pressione. Sconfitti da Hindenburg e Ludendorff, i russi erano scarsi di risorse, di strategie e di morale. Churchill pensò che uno sbarco in forze sulle coste sulle spiagge dei Dardanelli avrebbe aperto la strada verso il Mar Nero, consentito l’invio di rinforzi all’annaspante alleato, e distolto copiose forze tedesche per fronteggiare la nuova minaccia. Fu allestita una flotta imponente, ma inadeguata. Uno sbarco a migliaia di chilometri dalle basi, senza quella copertura aerea che si sarebbe rivelata essenziale nella guerra successiva, era un azzardo pericoloso. Sulle prime sembrò un successo, ma subito emersero gli errori  dell’Ammiragliato: difficoltà di rifornimenti, scarsa conoscenza del terreno, sottovalutazione delle forze avverse, lentezza nelle operazioni. I turchi resistettero valorosamente, e con l’aiuto dei rinforzi tedeschi dopo qualche mese ricacciarono in mare gli invasori. Un prezzo altissimo fu pagato da neozelandesi e australiani. Più cocente di tutte, fu l’immagine dell’invincibile Royal Navy in fuga. Benché la responsabilità militare fosse dei pianificatori in divisa, quella politica era del ministro della Marina: nell’agosto del 1915  Churchill si dimise. Successivamente, gli storici avrebbero in parte riconosciuto l’utilità dell’impresa, che evitò –  o meglio ritardò – il collasso – dell’esercito zarista.  Ma Churchill non guarì mai da quella ferita. Durante lo sbarco in Normandia, l’immagine di Gallipoli gli ritornò come un incubo ossessivo. 
 

Il quarantenne ex ministro si sentì sconfitto  e stanco: la depressione di cui soffriva periodicamente lo afflisse in modo crudele: la chiamava il suo “Black dog”, il cane nero, e l’avrebbe accompagnato fino alla tomba. L’unico rimedio era l’attività fisica, preferibilmente sui campi di battaglia. Ma ormai le eroiche cariche di cavalleria erano  finite, e in Francia si combatteva una logorante guerra di trincea.  Churchill, nominato tenente colonnello,  andò a comandare un battaglione nelle Fiandre, rischiando la vita al fronte come un qualunque fantaccino. Con l’avvento del pericolo, finì la depressione.
 

Malgrado il nuovo ruolo non propriamente elevato, quell’ufficiale era pur sempre un rampollo della nobiltà britannica, ricco di influenti amici e altrettanti avversari. Una commissione  riconobbe che Gallipoli non era stato un fallimento solo di Churchill,  e che in fondo le truppe si erano ritirate in buon ordine. (Venticinque anni dopo, commentando il “miracolo di Dunkerque”, il primo ministro avrebbe ammonito che wars are not won by evacuations). Nel Luglio del 1917 il nuovo premier Lloyd George lo nominò ministro delle munizioni.  Qui il depresso sconfitto riacquistò la sua poliedricità quali leonardesca. Studiò la struttura del carro armato e, anticipando di una generazione Guderian, De Gaulle e Liddell Hart, ne sostenne  l’impiego in reggimenti autonomi di penetrazione. Potenziò l’armamento dell’aviazione, e patrocinò l’impiego del paracadute per i piloti abbattuti. Incoraggiò i  nuovi impieghi dell’artiglieria, e ipotizzò, pare, l’impiego della rivoluzionaria spoletta di prossimità. Ma soprattutto impresse un ritmo impressionante alla produzione, senza ricorrere – come avrebbe fatto Speer trenta anni dopo – al lavoro coatto, ma aumentando l’orgoglio, e il salario, dei lavoratori. Alla fine della guerra, il suo prestigio era ritornato quasi intatto.
 

Nel frattempo aveva conosciuto, e frequentato, il nuovo primo ministro francese, Georges Clemenceau. I due uomini si piacquero, e soltanto la differenza di età impedì che diventassero amici. Clemenceau era un arcigno vandeano, ateo e anticlericale, animato da un istinto pantoclastico di fare e disfare governi. Sfidava a duello i rivali, vestiva in modo approssimativo e si compiaceva del suo determinismo darwiniano. Winston era   un aristocratico fedele alla liturgia anglicana,  citava Nostro Signore e la Bibbia quasi in ogni discorso, e non avrebbe mai alzato un dito contro un suo collega. Ma entrambi erano animati da un granitico amor di patria, si guadagnavano da vivere scrivendo, e mobilitavano la parola come la più micidiale delle armi. Mitigavano con l’intelligenza anche le battute più scabrose , come Mozart elevava la coprofilia di alcune sue cantate nelle melodie più sublimi. Quando il presidente  Felix Faure schiattò all’Eliseo durante un rapporto orale con un’amica, Clemenceau lo svillaneggiò esclamando “Il a voulu etre César, il est mort Pompée”. Anni dopo Churchill lo avrebbe emulato nella trivialità e nel  genio. Un giorno, mentre stava pisolando ai Comuni, il segretario gli recapitò un biglietto allarmante: “Signore, ha la cerniera sbottonata”. L’anziano gentiluomo restituì il foglio con un sorriso e una postilla: “Non si preoccupi, gli uccelli morti non cadono mai dal nido”. E quando il Lord del sigillo privato gli spedì un commesso per intimargli di raggiungerlo nel proprio ufficio, Churchill, comodamente seduto in bagno, rimandò il poveretto con una risposta agghiacciante: “Dica al Lord che sono sigillato nel mio cesso privato, e posso aver a che fare con un solo stronzo per volta!”. Ma  Churchill non dovette a Clemenceau soltanto queste “flèches empisonnées” ma anche il ruggito di battaglia davanti al nemico. Quando, nella primavera del  1918, i tedeschi riapparvero alle porte della capitale, e il Parlamento chiese al “Tigre” cose intendesse fare, il roccioso vandeano grugnì: “Je me battrai devant Paris, je me battrai à Paris, je me battrai derrière Paris”. Vent’anni dopo,  Winston avrebbe allargato il concetto: “We shall fight in  France… we shall fight in the landing  grounds, we shall figth in the beaches, we shall never surrrender!”. Mai, nella storia moderna, due leader erano stati così diversi e così uguali. E ora, chiusa la necessaria parentesi su queste due vite parallele,  torniamo al nostro eroe.
 

Coronato della vittoria, Churchill fu nominato prima ministro della Guerra e dell’Aviazione, e successivamente segretario di stato per le Colonie. Non ci dilungheremo qui nella sua intensa attività diplomatica per ridisegnare l’intero Medio oriente dopo la  dissoluzione dell’Impero ottomano. Ci limitiamo a dire che favorì l’ingresso degli ebrei in Palestina, compatibilmente con  gli interessi degli abitanti locali. Se i suoi consigli fossero stati seguiti, probabilmente non saremmo, dal 1948 in poi, nella drammatica situazione in cui  ci troviamo. 
 

Dopo un intervallo dovuto a un’operazione, in cui si trovò “senza appendice e senza seggio”, nel 1924 rientrò nel governo come cancelliere dello scacchiere, cioè ministro allele Finanze. L’anno dopo Time lo  nominò “Uomo dell’anno”, ma era un trionfo effimero. In realtà di  economia conosceva soltanto la filosofia liberale, che espresse come al solito con arguzia pungente: “Se distruggi il mercato libero crei il mercato nero”. E  ancora: “Il vizio del capitalismo è l’ineguale condivisione delle ricchezze, quello del socialismo l’eguale condivisione della miseria”. A parte ciò, era l’uomo sbagliato nel momento sbagliato. Sostenne il ritorno al gold standard, cioè alla parità aurea, che John M. Keynes individuò  subito come una  causa di recessione. Ci furono scioperi e contestazioni. L’economia vacillò, e  nel 1929 i laburisti di Ramsay MacDonald vinsero le elezioni. Churchil perdette il posto, e tutti lo considerarono politicamente defunto. Per abbattere il nuovo black dog, Churchill cominciò a erigere i muretti di Chartwell.
 

Chartwell è una dimora sobria e spaziosa, immersa nel verde del Kent e favorita dalle brezze della Manica. Churchill la circondò di piccole barriere di mattoni, e divenne così abile da meritarsi il titolo di bricklayer onorario. Costruì un laghetto artificiale, munendolo di un impianto di riscaldamento per qualche  nuotata, e creò un atelier per dipingere. I suoi quadri, o almeno alcuni, sono stati giudicati favorevolmente da qualche critico benevolo. Pubblicò la monumentale vita di Marlbourough che gli valse elogi e diritti d’autore. Portò a termine anche la “Crisi mondiale e grande guerra”, una storia autobiografica del tragico conflitto che, come tutte le memorie, difetta di senso prospettico e di imparzialità. Ma già si sente l’unghia leonina che avrebbe artigliato i lettori nella sua successiva avventura. Nel frattempo l’Europa cambiava. Le potenze vincitrici avevano imposto ai tedeschi condizioni che umiliavano il loro orgoglio e soffocavano la loro economia. Furono commessi errori grossolani, come quello di esigere esosamente il pagamento dei debiti dei vinti, attraverso prestiti concessi dai vincitori. Le truppe di occupazione in Renania costavano troppo, e ci si accontentò di imporne la “smilitarizzazione”. Quanto all’esercito dell’ex Impero germanico, si raggiunse la pura idiozia: fu ridotto a centomila uomini, consentendo al generale Von Seeckt di farne un selezionatissimo gruppo di professionisti: ogni soldato, disse Churchill, era potenzialmente un sergente, e ogni sergente un ufficiale. Quando, pochi anni dopo, Hitler introdusse la  coscrizione obbligatoria, ne fece subito  la macchina bellica più poderosa del mondo.
 

La crisi del ’29 diede il colpo di grazia a una Germania depressa nei sentimenti e nelle finanze. Giocando abilmente su entrambi i fronti, nel 1933 Hitler arrivò al potere. Churchill  fu il primo a capire il pericolo di questo caporale boemo, che aveva una ferrea logica nella sua follia. Ne aveva letto il “Mein Kampf”, e sapeva che sarebbe potuto diventare la miccia nell’esplosivo rancore di settanta milioni di tedeschi. Il dittatore cominciò subito ad attuare i suoi progetti: le persecuzioni contro ebrei e dissidenti, i primi campi di “custodia protettiva”, i plebisciti pilotati, le eliminazioni dei camerati scomodi, la creazione delle SS, un esercito personale sotto la guida spietata del fedele  Heinrich Himmler. Churchill denunciò ripetutamente ai Comuni la creazione di questo sistema infernale. La risposta fu quella consueta delle anime belle del pacifismo illusorio: non provochiamo questo individuo, troviamo piuttosto un accordo con lui. E così la palla di neve, che si poteva dissolvere con un calcio, divenne una valanga che avrebbe travolto l’Europa e il mondo. Nel 1935 Hitler annunciò la parità aerea con la Gran Bretagna: era una flagrante violazione del trattato di pace, che il turpe nazista considerava carta straccia. Churchill ricordò ai Comuni i suoi vecchi ammonimenti, e ne lanciò di nuovi: Hitler – disse –  voleva riprendersi, con gli interessi, quello che Versailles gli aveva tolto. I conservatori e i laburisti,  con Stanley Baldwin e Ramsay MacDonald, furono unanimi nell’invitarlo ad accantonare queste manie guerrafondaie, e a pensare piuttosto a un arrendevole appeasement. Nel 1936 Hitler rioccupò la Renania, e le democrazie occidentali risposero che in fondo si era ripreso le terre sue. A Oxford, gli studenti proclamarono che non avrebbero mai combattuto né per il re né per la patria. La viltà associata alla stupidità. Churchill fumò di rabbia, e inondò i Comuni con delle catilinarie degne di Demostene e Cicerone. Definì questi pacifisti nei modi più irridenti: di Attlee avrebbe detto che era una pecora travestita da pecora. Il suo isolamento diventò ostracismo. Poi, nel marzo del 1938 Hitler occupò l’Austria, con il beneplacito di Mussolini, che quattro anni prima aveva reagito mandando al Brennero tre divisioni. Atterriti ma ostinati, gli inglesi fecero finta di nulla.   Finalmente nell’estate del 1938, il dittatore tedesco, che ormai voleva la guerra, lanciò la provocazione finale: la restituzione dei Sudeti, un territorio attribuito alla Cecoslovacchia con popolazione prevalentemente tedesca. L’integrità di questo paese era stata garantita dalla Francia e dallo stesso Regno Unito. Hitler ululò un ultimatum, iniziando la mobilitazione. Quando tutto sembrava perduto, il Duce intervenne proponendo un incontro . I due dittatori si trovarono con Daladier e Chamberlain a Monaco, e i due costernati rappresentanti delle più gloriose democrazie europee si arresero al caporale boemo. Il premier  inglese tornò a Londra trionfante, sventolando l’accordo che avrebbe dato la pace all’Europa per le prossime generazioni. Churchill lo apostrofò: “Potevate scegliere tra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore e avrete guerra”. Qualche mese dopo Hitler avrebbe invaso il resto della smembrata Cecoslovacchia. Le potenze occidentali cominciarono a sospettare che Churchill avesse ragione. Nell’agosto del 1939 Hitler e Stalin, sempre in nome della pace, stipularono un patto per spartirsi la Polonia. Il sanguinario tiranno comunista diede via libera al paranoico imbianchino per la sua guerra personale. Il 1° settembre la Wehrmacht entrò  in Polonia. Era iniziata la Seconda guerra mondiale.  Churchill, che l’aveva prevista e temuta, fu nominato, come venticinque anni prima, primo lord dell’Ammiragliato. L’intera Royal Navy si scambiò un messaggio: “Winston is back”. Winston è tornato.

Winston Churchill, lo statista moderno. Di Carlo Nordio

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