FACCE DISPARI

Rosita Copioli: “I love Yeats”, il genio che turbava la cultura italiana

Francesco Palmieri

“Ringraziamo Yeats per aver contrastato gli stereotipi del modernismo”. La poetessa e saggista racconta la sua passione per il Nobel irlandese, cui ha dedicato varie traduzioni e il suo ultimo libro. La diffidenza della critica e il legame con Fellini

Quasi si scusa quando si definisce “eclettica” Rosita Copioli, come a giustificarsi dell’ottavo peccato capitale nell’epoca dello specialismo assolutista. Si scusa con quelli “che non sanno mai dove collocarmi”, perché questa signora riminese ma nativa di Riccione è poetessa e saggista, è stata animatrice della rivista ‘L’altro versante’ dal ’79 all’89, traduttrice, consulente editoriale, amica di Federico Fellini, Sergio Zavoli, Pietro Citati (che la fregiò di un capitolo ne ‘La ragazza dagli occhi d’oro’). Allieva di Luciano Anceschi, cacciatrice di inediti leopardiani, ha volto in italiano tutti i frammenti di Saffo ma si è occupata anche di Goethe e Flaubert, del molto amato Boiardo su cui presto uscirà un libro illustrato da Mimmo Paladino, ma soprattutto Rosita Copioli – che, dimenticavamo, curò anche il convegno mostra al Senato sul ‘Casanova’ di Fellini e i relativi Atti – è devotissima studiosa del poeta Yeats, premio Nobel per la letteratura nel 1923, cui ha dedicato varie traduzioni e l’ultimo suo volume ‘William Butler Yeats - Omero in Irlanda’ per le Edizioni Ares. Contiene il resoconto, quasi un’autobiografia intellettuale, del suo rapporto con il genio irlandese oltre a saggi e interventi pubblicati nel corso degli anni.

Correndo l’obbligo di spiegare i grandi innamoramenti intellettuali (fondamentalmente inesplicabili), ciò che ha spinto Copioli a diventare la massima conoscitrice italiana di Yeats è stata forse sempre la necessità di “chiedere scusa”, manifestata in questo caso da chi si fosse occupato del poeta nel nostro paese.

 

Chi chiedeva scusa e perché?

Quasi tutti. Da Montale a Bertolucci fino a Giorgio Melchiori, che è stato il più autorevole dei promotori di Yeats ma parlava dei confini angusti della sua cultura. Al contrario, non credo che Yeats debba essere perdonato, ma ringraziato per avere contrastato gli stereotipi del modernismo novecentesco, sostenuto da intellettuali impiegatizi e metropolitani.

 

Cosa suscitava la diffidenza della critica italiana?

Yeats veniva bollato per una supposta cultura di destra e per avere coltivato una visione esoterica sogguardata come cialtronesca. Fu invece un pensatore scrupoloso, curioso, assetato di conoscenze su cui avrebbe tessuto il sistema espresso in ‘Una visione’ circa i corsi e ricorsi della storia per tentare di decifrare il presente.

 

Un eclettico?

Se vuole.

 

A quando risale il suo primo incontro con l’opera di Yeats?

All’inattesa scoperta dei suoi saggi su uno scaffale della libreria londinese Foyles. Fu una folgorazione cui ero, in un certo senso, preparata.

 

Perché?

Mi laureai nel ’70/71 con una tesi su Leopardi e la natura. In un periodo in cui dominavano le neoavanguardie letterarie, parlare di natura già suscitava perplessità. Andavano di moda la decostruzione, la demitizzazione, l’approccio ideologico. Io avevo invece una concezione opposta della poesia, scevra dai diktat. Yeats era visto come un autore difficile, un eccentrico fautore di cosmogonie. Proprio questo sarebbe stato per me motivo di interesse assieme alla sua forza lirica, all’idea di un teatro nazionale e a quella romantica della rivoluzione irlandese. È stato il più grande poeta in lingua inglese dopo Shakespeare ma da noi, malgrado le eccellenti traduzioni nella Bur e nei Meridiani Mondadori, questa consapevolezza non ha mai attecchito.

 

 

Nel 1988 visitò la figlia di Yeats, Anne, che le dischiuse la biblioteca del poeta con migliaia di volumi.

Rimasi stupita quando disse: ‘Lei è la prima persona che viene da noi dall’Italia da quando è morto mio padre’. Nessuno aveva avuto lo scrupolo, o la curiosità, di verificare le letture di Yeats che pure veniva bollato per la presunta approssimativa cultura.

  

Quali autori italiani conosceva?

Dante Alighieri fu un suo potentissimo riferimento. Dal 1924 lesse anche Vico cui s’appassionò attraverso Croce e di Croce possedette e annotò le traduzioni in inglese. S’interessò anche a Gentile per la riforma scolastica, che poteva essere un modello per il nuovo Stato dell’Eire. Venendo in Italia aveva conosciuto Pirandello e aveva una raccolta dei suoi drammi.

  

Quanto influì sulla sottovalutazione di Yeats l’appartenenza alla Golden Dawn, l’Ordine Ermetico dell’Alba Dorata?

Al di là dei riti e delle vestizioni bizzarre che richiamavano l’antico Egitto, la Golden Dawn rappresentò il congiungimento tra radici neoplatoniche e romanticismo, oltre a saldarsi con l’interesse per William Blake di cui Yeats aveva curato le opere. Lui esplorò tutto il fondo immaginale del neoplatonismo sopravvissuto nel mondo anglosassone, che in Italia dopo Tasso si era invece andato smarrendo. In più attinse al sostrato popolare celtico di cui ho ritrovato eco per esempio in Romagna, nelle credenze arcaiche e in certe remote persistenze linguistiche come quelle rappresentate nel casolare della nonna in ‘8½’ di Fellini.

  

Il regista aveva letto Yeats?

Gli regalai la raccolta di saggi che avevo tradotto, ‘Anima mundi’, e intrattenemmo fitte conversazioni sui suoi interessi per il paranormale. Ci sono corrispondenze tra la concezione di Yeats e quella di Jung, anche se ciascuno aveva seguito autonomamente il suo percorso. Autonomo fu anche il percorso di Fellini, ma gli era sempre necessario trovare conforto nella figura di un ‘curatore’ dell’anima, da Jung a Ernst Bernhard, perché come tutte le persone intelligenti mancava della costante sicurezza che contraddistingue, invece, i cretini, anche se non avrebbe avuto bisogno di alcuna conferma al suo genio.

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