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Estate metafisica

Verso un profondo e magnetico avvenire

Aldo Schiavone

Il formidabile effetto della tecnica sulla Storia: non è più il passato a guidarci, ma è il futuro che ci attrae a sé. Dobbiamo governarlo. E colmare il vuoto di pensiero, metafisico e politico, intorno al nostro dominio sul mondo

Aldo Schiavone è uno degli storici italiani più tradotti nel mondo. Ha insegnato all’Università di Firenze, all’Istituto italiano di Scienze umane e alla Scuola Normale Superiore. Prosegue con il suo articolo la serie del Foglio sulla metafisica, un percorso a tappe per affrontare i grandi temi della natura, della Storia, della libertà e dell’arte dal punto di vista filosofico. È già uscito sul Foglio del 2 luglio “Un ponte tra l’uomo e il cosmo” di Michele Silenzi.
 



Vi sono epoche che non possono essere comprese davvero da chi le sta vivendo se non attraverso la filosofia. Età di svolta che richiedono, per essere capite dai contemporanei, una forza teoretica in grado di diventare subito giudizio storico, senza tuttavia rinunciare a sé stessa, rimanendo intrinsecamente filosofia: cioè una visione che si identifichi in un quadro di concetti capace di interpretare ed elaborare al suo interno il proprio tempo, secondo il celebre aforisma hegeliano.                               

Credo che quello che stiamo attraversando sia esattamente uno di questi rari passaggi: “assiali” sono stati definiti. Ed è la forza invasiva di un solo elemento a determinarne l’eccezionalità. È l’egemonia della tecnica e solo quella – l’esplosione nell’incremento della potenza da essa sprigionata, mai prima così clamoroso – a conferire alla stagione in cui ci troviamo una posizione unica di rottura e di spartiacque.
 

Il problema – che riguarda da vicino tutti noi – è che però un tempo così denso e così nuovo non ha (ancora) prodotto un pensiero capace di venirne a capo e di rivelarlo completamente a sé stesso. E la mancanza crea un vuoto in cui rischiamo di perderci: in cui ci stiamo già perdendo, con gravissimi rischi.
 

Non fu così durante l’ultima grande trasformazione dell’Occidente, la sola forse comparabile con l’attuale, anche se oggi il salto è assai più vertiginoso: i pochi decenni tra la fine del Diciottesimo secolo e gli inizi di quello successivo in cui si concentrarono le due decisive rivoluzioni politiche della modernità, in America e in Francia, e si compì l’avvio della rivoluzione industriale in Inghilterra – gli anni delle tre rivoluzioni che consacrarono la centralità atlantica nella storia del pianeta.
 

Allora, ad accompagnare e insieme a contribuire nel produrre il mutamento, vi fu un’incomparabile fioritura di pensiero teoretico e metafisico quale mai s’era vista: l’illuminismo francese di Voltaire, di Rousseau, degli altri enciclopedisti; la filosofia tedesca, da Kant a Hegel e poi Marx; l’economia politica inglese, da Smith a Ricardo e Bentham. Era l’età in cui apparve chiaro che la storia d’Europa era più che mai la sua filosofia. Per non dire della musica, o della letteratura: Goethe, gli Shelley, Stendhal.
 

È sufficiente solo evocare questi nomi, per rendere improponibile qualunque confronto con ciò che adesso abbiamo sotto gli occhi in tutta la sua inadeguatezza, almeno se parliamo di scienze umane. Uno scarto che è il segno di una frattura – di conti che non tornano – su cui dovremmo interrogarci a fondo, come invece non riusciamo colpevolmente a fare.
 

L’aumento di potenza della tecnica si traduce senza troppe mediazioni in aumento di potenza dell’umano, anche se si tratta di una crescita non distribuita in modo equilibrato. Sviluppo delle possibilità conoscitive e produttive, e in generale delle capacità di modificazione e di controllo dell’ambiente in cui siamo immersi, e della stessa corporeità da cui siamo determinati. Fino al punto da trasformare le basi materiali dell’esistenza della specie da presupposti immodificabili della condizione umana in risultati (provvisori) della nostra volontà e delle nostre azioni. Un salto che ci sta immettendo in un mondo nuovo, ma che espone anche a pericoli enormi: come sempre accade, del resto, quando sulla natura dentro e fuori di noi si amplia d’improvviso l’effetto di padronanza dell’umano, e dunque la nostra possibilità di scelta e di decisione.
 

Questo incremento, che si è realizzato negli ultimi due secoli con un’accelerazione via via crescente, ha fra le sue conseguenze un cambiamento irreversibile nel rapporto fra storia e tempo: fra la nostra storia e la durata del tempo in cui possiamo immaginare di proiettarla. Perché proprio le acquisizioni intrinsecamente progressive della tecnica – la cui forma complessiva è resa evidente dall’ultimo balzo – costituiscono l’ossatura che ci permette di abbracciare in un solo sguardo l’intera storicità dell’umano – non tutta la storia, ma la sua trama di fondo – consentendo di vederla per quello che è. Un percorso interamente dominato da un desiderio di sempre maggiore potenza – l’autentico codice della specie – mai completamente appagato e disteso nella profondità del tempo sia all’indietro nel passato, sia in avanti verso il futuro: riuniti a formare un unico insieme, scandito dalla crescita della nostra presa – teoretica e pratica – sul mondo. L’intero tempo storico dell’umano (unificato dalla spinta dell’Occidente) non appare altrimenti che come una lunga rincorsa, prima assai lenta, poi sempre più veloce – ma velocità e lentezza sono concetti relativi a punti di riferimento che sono essi stessi mutevoli – verso il raggiungimento di un massimo indefinito e indefinibile di controllo sulle basi naturali della vita e dell’ambiente, e sui meccanismi dell’informazione e della conoscenza.
 

Una simile visione è possibile solo oggi: perché è soltanto l’ultimo tratto del suo cammino a rivelare lo sviluppo della tecnica come il principale motore della storia umana. La tecnica, e non l’economia – come a lungo si è creduto – che in realtà ne dipende completamente, anche se la tecnica non compare mai da sola sulla scena della storia, ma sempre all’interno di rapporti sociali determinati da altre componenti, e da altri poteri: l’economia stessa, la politica, le forme culturali e mentali, e molto ancora.
 

E solo adesso appare chiaro il suo peso decisivo non solo nei caratteri del nostro passato, ma anche nella possibilità di intravedere le linee sempre più chiaramente prevedibili del suo ulteriore avanzamento, fino a farci scorgere per la prima volta i contorni del nostro avvenire, con i traguardi raggiungibili, le compatibilità di fondo e le potenzialità che si dischiudono
 

In tal modo, per la prima volta nel percorso evolutivo della specie, la relazione tra passato e futuro si rovescia, con esiti incalcolabili rispetto alla nostra formazione mentale, e soprattutto di quella delle giovani generazioni, nate nel tempo rivoluzionato che si sta appena aprendo. Per loro, non è più la forza del passato a far da guida: l’irresistibile fascinazione del già accaduto e del già pensato e immaginato che tende a riprodursi e a pesare su di noi, a volte come un incanto, altre volte con la violenza di una gabbia – o di una condanna. È invece il magnetismo del futuro, la carica di attrazione e di sbilanciamento che si sprigiona dalla sua massa non ancora venuta all’essere ma già intravista nel pensiero, che si irradia sul presente e lo trascina. In qualche maniera, è perciò come se il futuro già esistesse e facesse parte del nostro tempo storico, che non è il tempo della fisica, ed è anticipato dalle linee evolutive della nostra forza trasformatrice. Una condizione mai prima sperimentata che – si badi – non rende inutile la conoscenza storica, anzi: solo che ne orienta il senso e il valore in una direzione del tutto nuova: come risposta della memoria della specie alle domande poste dalla preparazione sempre più serrata e consapevole del proprio futuro.
 

Se sfruttiamo fino in fondo questo punto di vista, siamo allora in grado di spingere molto lontano il nostro sguardo: non di qualche generazione, bensì fino ad arrivare tanto in avanti da confrontare la visione del tempo evocato con quella che l’umano ha già alle sue spalle. Di pensare cioè al futuro in termini di tempo profondo, e tuttavia non per questo di minore realismo: proprio come fanno i paleontologi con il passato più remoto.
 

Possiamo mettere così a confronto la lunghezza della durata innanzi a noi, con la velocità raggiunta dalla crescita del nostro controllo su ciò che ci circonda, e proiettare la densità tecnologica del tempo che ci aspetta sulle lunghezze che abbiamo imparato a conoscere dal tempo povero di tecnica alle nostre spalle. In tal modo, la sovrapposizione delle due scale – quella dell’accelerazione della potenza tecnologica in continuo aumento, distesa su quella di una lunghezza quasi senza confini – ci porta dritto a una giunzione dove la nostra storia incontra il punto estremo in cui il finito penetra nell’infinito, e si confonde con esso. In altri termini, il punto in cui la storicità della specie smette di essere tale, e diventa metafisica: quella di un umano diventato capace di trascendere sé stesso. C’è questo, allora, nel nostro destino?
 

Una parte significativa della filosofia dell’Occidente non ha mai avuto con la tecnica un rapporto tranquillo. L’ha guardata piuttosto come un rischio, che come un’opportunità: una tradizione iniziata da Platone, che nel Fedro e nella VII Lettera giudicava l’invenzione della scrittura – che era stata un’autentica rivoluzione che apriva la strada alla conoscenza scientifica del mondo – come un evento portatore solo di equivoci e degrado, rispetto a quelle da lui giudicate le migliori attitudini mentali umane. E arrivata almeno sino ai timori di Heidegger, comprensibili per la verità molto più sul piano della storia della sua epoca che non su quello dei princìpi della sua stessa metafisica, ma che pure hanno avuto un’influenza pesantissima su molto pensiero successivo – francese soprattutto – del Ventesimo secolo.
 

Non c’è qui lo spazio per discutere con l’approfondimento che sarebbe indispensabile gli orientamenti e gli sviluppi di questa posizione, né delle sue origini – in cui mi convinco sempre di più che si ritrovino elementi tipici della critica romantica alla ragione scientifica moderna affiorati già nella cultura tedesca e inglese del Diciannovesimo secolo. Mi basta osservare che è come se, dopo Marx e dopo Nietzsche, il pensiero europeo, incerto fra il capitale e la tecnica – le due formidabili creature della modernità dell’Occidente, responsabili di (quasi) tutte le grandezze e le miserie del pianeta – avesse scelto di concentrarsi solo su quest’ultima per esercitare un’autocritica che avrebbe fatto bene a rivolgere con almeno altrettanta intensità anche al primo dei due elementi ricordati: alle nuove forme dell’ordine economico capitalistico, diventato ormai un sistema interamente globale, sempre più squilibrato e ingiusto pur nella sua straordinaria efficacia, oggi comunque senza alternative.
 

E si può aggiungere ancora qualcosa. E cioè che in effetti, in tutte le analisi cariche di pessimismo sul rapporto fra l’umano e la tecnica che abbiamo letto nel corso del Novecento si intravede un elemento comune, presente sin dai testi platonici e rintracciabile con non minore nettezza ancora in Heidegger: una presenza che definirei come un eccesso fuorviante di ontologizzazione, e una mancanza altrettanto grave di senso della storicità.
 

In altri termini: una concezione dell’umano e della tecnica dove queste due entità si fronteggiano immobili l’una di fronte all’altra, o anche l’una nell’altra, ma entrambe irrimediabilmente ferme e chiuse nella loro (ipotetica) essenza una volta per tutte; e non come due processualità coinvolte in un movimento di fuga in avanti diseguale e insieme strettamente connesso: l’umano che si struttura, prende forma e cambia in rapporto ai risultati della tecnica che produce, cioè alla padronanza del mondo che è capace di mettere in campo; e la tecnica a sua volta che si sviluppa, si adatta, entra in stagnazione, si modifica e poi, in certe determinate condizioni culturali e materiali, prende d’improvviso velocità e spicca quel volo che oggi è appena cominciato.
 

Se riduciamo dunque la tecnica alla sua storia – essa è storia, e null’altro che storia – appare evidente come il problema non sia quello di metterle un freno, o di congelarne la potenza di fronte all’intoccabilità della natura, come sembrava suggerire il famoso esempio heideggeriano del Reno e della centrale idroelettrica – un esempio, mi si lasci dire, un po’ meschino, anche per i tempi in cui è stato concepito: un apologo da contadini, o forse da incurabili wagneriani – quanto piuttosto di guidare secondo ragione la potenza da essa sprigionata. E questo chiama in causa non più la stessa tecnica, ma innanzitutto la politica, e poi una cultura che non può esaurirsi nel solo pensiero scientifico, ma deve provare a progettare quelle nuove frontiere dell’umano – ai confini fra storia e metafisica – che la tecnica sta rendendo ormai possibile se non già raggiungere, quanto meno intravedere.
 

Il discorso torna così là dove l’avevamo iniziato: a denunciare un vuoto di cui si possono anche intuire le spiegazioni, ma che non per questo diventa meno grave e pericoloso. Noi siamo sempre stati una specie fortunata: e tuttavia l’Apocalisse è una strada continuamente aperta davanti a noi: oggi più che mai. Una politica razionale non può essere, ormai, che una politica che assuma come riferimento l’interezza della specie nella sua globalità e il suo bene comune. Insomma, una politica globale della specie, sorretta da una visione dell’umano che abbia integrato al suo interno la possibilità di un tale aumento di potenza, da farci sfondare, prima o poi, le barriere dello spazio e del tempo. Da farci entrare – noi, l’umano – interamente nella Metafisica.

L'estate Metafisica del Foglio

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