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Il canto ferito che affida al mare un grido di speranza

Stefano Picciano

A Lampedusa l’orchestra suona strumenti fatti con il legno dei barconi. La dirige Riccardo Muti per “Le vie dell’amicizia”. Reportage

Negli istanti che precedono l’atterraggio a Lampedusa osservo dall’alto il mare distendersi vasto sotto di noi. E’ il Mediterraneo, che nel suo nome di “mare tra le terre” svela la sua identità di crocevia tra i popoli, legame tra le civiltà, punto di contatto tra le culture. E’ il mare nostrum degli antichi, che rappresentava tutto il mondo conosciuto al di qua delle “terre incognite” sovente rievocate con un moto di inquietudine al margine di antiche carte geografiche; è l’omerico mare mai stanco solcato da Ulisse nella struggente nostalgia di casa e al contempo in un indomabile desiderio di conoscenza; sono le acque al di qua delle Colonne d’Ercole, attraversate dai popoli antichi alla ricerca delle proporzioni del mondo e di sé stessi. Europa, Africa, Asia: il Mediterraneo separa, ma soprattutto unisce, le civiltà. Nulla di più pertinente, allora, che invocare nel cuore del nostro mare l’amicizia tra le nazioni, tra i popoli, tra le persone. Ma la voce che affida al mare questa speranza è un canto ferito, quello di un violoncello costruito – non è una metafora – con il legno dei barconi di chi quei flutti li attraversa nella disperazione, nel dolore, nella fragile speranza di ricostruire un’esistenza.

La ventottesima edizione dell’iniziativa “Le vie dell’amicizia” ci porta a Lampedusa, innalzando un appello perché il Mediterraneo torni a unire piuttosto che a dividere. Quello intrapreso da Riccardo Muti, nell’ambito del Ravenna Festival, è un itinerario iniziato nell’ormai lontano 1997 e proseguito, anno dopo anno, attraverso città in qualche modo ferite da sofferenze, difficoltà, contraddizioni. Nel tenue ma tenace proposito – con quella discrezione che solo la musica, forse, possiede – di invocare la speranza, innalzare ponti di fraternità, riallacciare antichi legami che attraversano la storia. 

 

La ventottesima edizione dell’iniziativa nell’ambito del Ravenna Festival, perché il Mediterraneo torni a unire piuttosto che a dividere


Già nella prima edizione si era colto il valore di un’iniziativa come questa quando, in una Sarajevo devastata dai bombardamenti, lo scrittore Zlatko Dizdarevic, dando voce all’intero suo popolo, aveva osservato: “Per la prima volta abbiamo sentito che la speranza del mondo è la cultura senza frontiere. La dignità restituita è molto di più delle case ricostruite. Non lo dimenticheremo mai”. Vennero poi molti altri appuntamenti ricchi di significato che, legando Ravenna a città assai lontane, sono rimasti nella memoria di tanti: il Requiem di Verdi a Gerusalemme, la Nona di Beethoven al Teatro Bolshoi di Mosca, il concerto sul Bosforo – in quella Istanbul che è punto di congiunzione tra Europa e Asia – quello che ha risuonato nel profondo silenzio di Ground Zero a un anno dagli attentati di New York, quello ai piedi delle grandi piramidi in Egitto. E poi in Tunisia, quando accadde che, un istante prima che Muti desse l’abbrivio all’esecuzione, dal minareto si stagliasse nell’aria il canto del muezzin per la preghiera della sera, creando una commistione di vertiginosa suggestione; poi il Libano, Trieste, Nairobi, per citare solo alcune tappe. Nel 2012 si realizzò a Ravenna, all’insegna dell’universalità del linguaggio musicale, un incontro tra comunità monastiche che mise in luce la matrice di una comune spiritualità, legando esperienze solo apparentemente distanti; due anni dopo il sacrario militare di Redipuglia divenne cornice, attraverso le note del Requiem verdiano, del grido lacerante dell’uomo di fronte alla guerra. Nel 2017 venne la volta di Teheran (“uno dei viaggi più importanti. Non ho avuto la minima esitazione – disse Muti – a venire qui a fare musica con ragazzi iraniani e italiani (…). La musica supera le parole. La musica dice sempre la verità del cuore”).

L’anno seguente, in Ucraina, il concerto si tenne a Kyiv, nella piazza dominata dalle cupole dorate della Cattedrale di Santa Sofia, e quello successivo ad Atene, nelle radici della civiltà occidentale. 
Quest’anno l’evento si riveste di una suggestione particolare e Muti accenna subito al significato più profondo di questa circostanza: “Questi legni dei barconi, legni di speranza carichi di una storia drammatica, sono divenuti ora legni che veicolano suono, armonia, bellezza”. E’ un progetto che ha preso vita per iniziativa della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti: le sembianze del legno sono state mantenute, persino la vernice è rimasta intatta, ma il legno delle barche approdate sulla costa dell’isola, destinato a essere distrutto, attraverso il lavoro dei detenuti del carcere di Opera guidati da un maestro liutaio è diventato il legno degli strumenti musicali che stasera, proprio a Lampedusa, ascolteremo.

 

Il legno delle barche approdate sull’isola è stato trasformato dal lavoro dei detenuti del carcere di Opera guidati da un maestro liutaio


Recuperati i bagagli ci dirigiamo verso il centro dell’isola che già al primo sguardo mette in luce la sua bellezza: il clima, i colori, la vegetazione stessa mostrano le caratteristiche di una terra di confine, ponte tra i popoli e le civiltà. Il concerto, già eseguito due giorni prima a Ravenna, si ripropone in questo luogo carico di significato, di emozione, di speranza, in quest’isola di appena venti chilometri quadrati che pare consistere essa stessa di nostalgia, ovvero – etimologicamente – di quel dolore di un ritorno (verso una casa, cioè verso sé stessi) che la musica sempre mette a tema: “Se c’è un luogo che riassume in sé tutte le tragedie, e insieme le speranze, che i viaggi disperati attraverso il Mediterraneo portano con sé – si legge nel comunicato del Ravenna Festival – quello è la piccola isola di Lampedusa. E’ lì, primo lembo d’Europa, che approdano stremati i migranti. E’ lì che troppo spesso si raccolgono i corpi di chi non ce l’ha fatta. E’ lì che inevitabilmente si compie il viaggio dell’amicizia”. 

Dopo l’accoglienza offerta dalla Banda dell’Associazione Culturale Musicale Lipadusa è il Coro a coro, diretto da Rachele Andrioli, ad aprire la serata offrendo al pubblico una sequenza di canti in lingue diverse: le voci che si innalzano nella notte incipiente paiono spingersi molto in là, nel vasto spazio che ci circonda e l’impressione si ripete, subito dopo, nell’ascoltare, in una riscrittura in dialetto siciliano, dei versi de L’infinito di Giacomo Leopardi. Il programma prevede poi Limen|ǀSamia|ǀLimen, una composizione elettroacustica commissionata dal Ravenna Festival ad Alessandro Baldessari: i suoni evocano la voce del mare, nel suo carattere quieto come nel fragore della tempesta, mentre le pareti del teatro si illuminano di centinaia di candele per ricordare le tante vittime dei naufragi su queste coste. Alla stessa tematica è stata dedicata la sezione centrale – a cui abbiamo assistito la sera precedente la partenza verso Lampedusa – di queste tre serate incentrate sull’amicizia, con la prima rappresentazione dell’opera teatrale Non dirmi che hai paura, ispirata ad un romanzo di Giuseppe Catozzella, nella regia di Laura Ruocco. E’ la storia di Samia Yusuf Omar, la giovanissima atleta somala scomparsa nel Mediterraneo, durante il naufragio di un’imbarcazione, nel 2012, mentre cercava di raggiungere l’Europa. Pochi anni prima, dopo aver gareggiato nei duecento metri ai Giochi olimpici di Pechino, diventava d’un tratto, attraverso le parole rilasciate ai giornalisti, una sorta di simbolo di libertà per le donne del suo paese: “Noi sappiamo che siamo diverse dalle altre atlete, ma non vogliamo dimostrarlo: facciamo del nostro meglio per sembrare come loro. Sappiamo di essere ben lontane da quelle che gareggiano qui (…), ma più di ogni altra cosa vorremmo dimostrare la nostra dignità e quella del nostro paese”.

 

L’opera “Non dirmi che hai paura” è la storia di Samia Yusuf Omar, la giovanissima atleta somala scomparsa nel Mediterraneo nel 2012

 

Il Teatro naturale della cava di Lampedusa è un luogo carico di storia e suggestioni, uno “spazio di meditazione, quasi di preghiera, al cospetto di quel ‘barcone’ recuperato al naufragio e divenuto simbolo, e monito, di tutti quelli che ogni giorno rischiano la traversata”.  Il colore delle pietre che circondano la platea ha gli stessi toni del sole che tramonta dietro il mare, all’orizzonte: “Questo teatro naturale alle porte dell’Europa – spiega Muti – si apre per la prima volta alla musica e la cultura porta sempre con sé amore, generosità, attenzione nei confronti dell’altro: la musica è un elemento che unisce”. E’ impressionante pensare che dal legno che ha portato i migranti attraverso il mare esce ora il suono che vuole ricordare le loro sofferenze, invocando la fine di quel dramma. 
Al centro del programma lo Stabat Mater messo in musica da Giovanni Sollima: il testo prende spunto dalla celebre sequenza di Jacopone da Todi che, tante volte posta in musica dai più grandi compositori della storia, si ripropone qui – come in una discesa dall’assoluto all’hic et nunc – in una versione in siciliano antico realizzata da Filippo Arriva; la musica è una partitura per controtenore, theremin (strumento dal timbro originale, quasi collocato al punto d’incontro tra il violoncello e la voce umana), coro e orchestra. “E’ il tema del dolore di una madre – spiega Sollima – un tema senza tempo in una forma architettonica, quella dell’inno Stabat Mater, che nei secoli è rimasta immutata”. Un dolore struggente, ma “non gridato, bensì intimo, sommesso, quasi tenero e dolce”. Di fronte a Riccardo Muti (fu proprio lui, dopo aver letto il testo, a suggerire che si invitasse Sollima a comporre la musica) ecco l’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini”, i solisti (Nicolò Balducci, controtenore, Lina Gervasi al theremin, lo stesso Sollima al violoncello) e sullo sfondo il coro “Guido Chigi Saracini” della Cattedrale di Siena guidato da Lorenzo Donati. Una reiterata invocazione alla “povera madre, che annega tra le lacrime” apre in un’atmosfera onirica l’esecuzione, che attraverso otto sezioni conduce l’ascoltatore in un percorso di profonda drammaticità espressiva, dal sussurro al grido, delineando con palpitante intensità le immagini degli eventi narrati: il sole che si nasconde dietro le nubi, la natura che si scolora, i profumi che scompaiono. “Non ti spaventare – canta infine la madre al figlio – sei sempre il mio piccolino, ti tengo stretto tra le mie braccia”. In un istante fuori dal tempo, dopo una trascinante improvvisazione del violoncello, esce dal profondo silenzio in cui il dolore si mescola alla tenerezza la dolce melodia di una ninna nanna: il dolore della Madre accoglie in sé quello delle madri di ogni epoca. 
“Suonare questi strumenti del mare, sentirli vibrare e per così dire conversare con essi – ha raccontato Sollima in un breve dialogo – è un’esperienza intensissima: il legno di quel violoncello ha una voce fragile e delicata ma al contempo nobile, è un legno che ha alle spalle una storia e la racconta. Perché chi sbarca su queste coste porta sempre con sé, in qualche modo, un canto”. 

 

Il violoncellista Giovanni Sollima racconta “l’esperienza intensissima” di uno strumento con “una voce fragile e delicata ma al contempo nobile”


La notte scende sul mare che circonda il teatro, nella memoria risuona l’eco delle musiche ascoltate. “Un momento di grande valore spirituale” – confida a noi Riccardo Muti pochi minuti dopo – “il fatto che dal legno di quelle barche sia nato un legno di canto, di armonia, di bellezza, custodisce il profondo significato di questa serata”. 

Poche ore più tardi, prima di ripartire, mi fermo un istante sulla riva del mare, spingendo lo sguardo nel profondo paesaggio davanti a me (“Madre, che cos’ha questo vento?”, diceva uno dei canti eseguiti al concerto) e penso d’un tratto che in questo luogo carico di problemi non risolti e di contraddizioni, in questa terra di confine, esposta alle raffiche del vento di un orizzonte dominato unicamente dal mare, qui dove si fa tangibile il dramma di chi cerca una patria, risuona più incisiva una voce che da sempre abita l’interiorità dell’essere umano: qualcosa di simile alla xenía del mondo omerico che – come legge non scritta dell’animo – detta al cuore il valore dell’ospitalità: “Ora però, che sei giunto alla nostra terra, alla nostra città, / né panno ti mancherà, né altra cosa, / quanto è giusto ottenga il meschino, che supplica”, dice la dolce Nausicaa a Ulisse appena approdato nella terra dei Feaci.

Mentre l’aereo decolla da Lampedusa guardo, laggiù, il mare apparentemente infinito. La costa africana dista un centinaio di chilometri, quella siciliana un poco di più; nel mezzo, una distesa d’acqua che custodisce storie, in gran parte sconosciute, di sofferenza, desideri, nostalgia. Ma che oggi pare vibrare di una luce di speranza nuova: esile, certo, ma tenace.