Chiacchierata con Vittorio Giacopini sul suo ultimo romanzo
Ci vorrebbe uno zigano per descrivere un modo diverso di stare al mondo. Intervista all'autore di "L’orizzonte degli eventi"
Vittorio Giacopini ci accoglie nella sua nuova casa a Montesacro col suo immancabile toscanello e una maglietta bucata. Oltre a fumare, scrive, disegna e talvolta avvia le mattinate dei lettori su Radio 3 con la rassegna delle pagine culturali. Rispetto alla precedente abitazione sono spariti i santini, gli asinelli, i cartelli stradali, la panoplia di tazzine da caffè rubate. “E’ ancora tutto in cantina”. I libri però sono già dappertutto. Sull’ascensore avevamo incrociato la compagna che, mirabilmente, lo aveva definito “un virtuoso della litote”, facendo cenno alla sua notoria incapacità di sbilanciarsi in un complimento. L’occasione della chiacchierata è la pubblicazione di L’orizzonte degli eventi (Mondadori) e la sua vecchia casa è il punto di osservazione da cui parte il romanzo, un luogo come un altro al tempo, quello della pandemia, in cui Roma e tutto il mondo sono immoti.
E in effetti il vero territorio in cui ci troviamo sembra più quello del sogno, nonostante lo stesso Giacopini ammetta: “Io i sogni li salto a piè pari nei romanzi”. Ma bando ai realismi, versione deteriore della realtà: “Questa è una realtà aumentata, quella dei surrealisti. Una dimensione che ci permette di attraversare un avvitamento del nostro tempo storico e anche un passaggio rivelatorio della nostra società”. Ad accompagnarci in questo viaggio da fermi c’è una figura ingombrantissima e “radicalmente altra”, quella dello Zingaro, “incarnazione del modello di erranza, il reagente perfetto in una situazione di claustrofilia. Nelle cronache rinascimentali erano detti ‘senza loco né foco’ e hanno sempre rappresentato chi sta fuori dalla tirannia della normalità”. Questo Zingaro in particolare è terribilmente loquace, ha un’età imprecisata e gli occhi cerulei, forse frutto degli esperimenti del dottor Mengele col blu di metilene. L’Angelo della morte, lui, lo chiama addirittura “paparino” in una beffarda riappropriazione di una vicenda soltanto subita. Lo Zingaro è “un Socrate senza maieutica che dialoga con la voce che dice io nel romanzo, e non fa che ripetergli l’imperativo: Bisogna essere come gli zigani” che, a ben guardare, forse è il tema dell’intera opera di Giacopini: “Il tentativo di descrivere un modo diverso di stare al mondo e dentro la storia”.
Il romanzo ha anche un tratto saggistico, con affondi storici sulla cultura dei nomadi che sono diversamente diversi: “Noi con i diversi abbiamo un rapporto di condiscendenza, è pieno di scrittori e politici che si occupano dei poveri o degli emarginati, ma lo zingaro non ha rivendicazioni né si lagna. E’ refrattario alla categoria di vittima, avendo vissuto parallelamente a noi, dentro la storia dell’Occidente, fin dal ’400, e avendo fatto sempre a modo suo”. Il sospetto di fondo, fin dall’inesorabile titolo, è che se anche se anche si può vivere come gli zigani, non ci sia un altro mondo possibile. “Tutt’altro, ci stiamo proprio infilando in un buco nero”. Il romanzo però è talmente denso che ci troviamo anche l’utopia, ovvero una nave cargo incagliata nel Canale di Suez in cui i marinai improvvisamente sfaccendati costituiscono una specie di comune. “La rivoluzione si può ancora fare ma andrà a finire come a Parigi. Un grande momento di invenzione di rapporti sociali, fratellanza e condivisione che però non potrà che chiudersi con una strage. Alla fine questo mondo, il nostro mondo, trionfa sempre”.
L’occasione pandemica che poteva essere la congiuntura ideale per riposizionare il nostro sguardo sulle cose, a partire dal nostro rapporto con le città dechirichizzate, sembra essere persa: “Dopo la crisi post-moderna della pandemia ci siamo ritrovati alle prese con una crisi arcaica, la guerra, ma la battaglia fondamentale mi pare stia nel nostro modo di rapportarci alla normalità, e durante gli anni del Covid i comportamenti della vita quotidiana erano diventati la linea del fronte”. La paura del contagio come codice segreto che accompagna le nostre esistenze: “E chi meglio dello Zingaro per raccontarla. Lo abbiamo sempre visto come infetto, estraneo, irriducibile ai valori della nostra società. Nell’Europa dei lumi, se leggi Diderot, d’Alambert e Voltaire la parola “zingaro” per loro sfugge a qualsiasi categorizzazione. Immaginavano un futuro radioso di liberazione e prosperità, ma senza ciechi, storpi e zingari. La dialettica dell’illuminismo è la stoffa del nostro tempo: il progresso che genera il suo contrario. Gli zingari hanno sempre affascinato solo artisti e spostati”. Quasi dei freaks, insomma. “E’ difficile irreggimentare gli zingari dentro le identity politics. Nel libro c’è una satira del politicamente corretto, che detta fuori dai denti non è che remissività e conformismo della nostra cultura”. Eccoci qua, gettata la maschera di autore di sinistra: “Macché, non è tanto che non si possano più dire certe cose o che altre vadano retrospettivamente cancellate, quello che non sopporto sono queste mode tematiche. Oggi, il tema dominante è quello della famiglia, dei sentimenti. Sono tutti modi per cercare di rendere appassionatamente narrativa la nostra normalità. Che andrebbe fondamentalmente vissuta, poi ognuno se la vive come preferisce”. E questa voce che dice io e che abita nella tua vecchia casa con alcuni tratti della tua biografia in comune, non sarà mica la famigerata autofiction? “Io di me stesso, di ciò che provo e penso, non parlo nemmeno con le persone più vicine nella mia vita privata. Quella voce è un fantoccio della mia personalità”.