estate metafisica
Filosofia dell'esperienza assoluta, per togliere la polvere dai dipartimenti universitari
Come può essere attraente una disciplina che si occupa solo di criticare la vecchia metafisica? È ora di immaginarne una nuova. Oltre i dualismi di soggetto-oggetto e potenza-atto, resta l’immanenza radicale. Fra Giordano Bruno, William James e Henri Bergson
Rocco Ronchi insegna filosofia presso l’Università degli Studi dell’Aquila e presso l’Irpa (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata) di Milano. Prosegue con il suo articolo la serie del Foglio sulla metafisica, un percorso a tappe per affrontare i grandi temi della natura, della storia, della libertà e dell’arte dal punto di vista filosofico. Sono già usciti il 2 luglio “Un ponte tra l’uomo e il cosmo” di Michele Silenzi e il 9 luglio “Un magnetico avvenire” di Aldo Schiavone.
Quando il dottissimo filosofo aristotelico Andronico di Rodi catalogò gli scritti del maestro per fornirne la prima “edizione critica” collocò gli scritti di “Filosofia prima” dopo “i libri di Fisica”. Per “Filosofia prima”, Aristotele intendeva quella scienza regale che invece di occuparsi di questa o quella “regione” della realtà (che chiamava on, ente), ad esempio la regione delle grandezze matematiche o la regione degli esseri dotati di movimento (da lui denominata, appunto, “fisica”), poneva a tema di indagine “l’ente in quanto ente”. Con questa formulazione, dal sapore tautologico, Aristotele voleva dire che la Filosofia prima ha come oggetto non questo o quell’ente, ma l’ente come tale, l’ente considerato solo nel suo essere, nel suo puro che c’è (duemila anni dopo, Leibniz apporterà a questa definizione della Filosofia prima una piccola ma decisiva modifica dalle conseguenze incalcolabili aggiungendo a quel “che c’è” un “invece che” o un “piuttosto che non essere”). La Filosofia prima di Aristotele è, insomma, ciò che tecnicamente la tradizione filosofica ha battezzato “ontologia”, cioè la scienza dell’essere come tale.
Con la sua classificazione degli scritti aristotelici, ispirata a soli criteri filologici, Andronico di Rodi offriva il destro, seppure involontariamente, per una prima e decisiva interpretazione dell’ontologia, che resterà paradigmatica per i secoli a venire, fino a noi. “Dopo i libri di Fisica”, in greco si dice infatti meta (dopo) ta physika, sottintendendo ta biblia (biblion vuol dire libro), ma meta in greco rimanda anche all’atto del procedere oltre, del trascendere, del lasciarsi alle spalle qualcosa, e ta physica significa le “cose” della Fisica, gli enti che sono l’oggetto specifico di quella scienza “regionale” denominata Fisica. E quali sono questi enti? La “natura” di Aristotele è molto diversa dalla “Natura” oggetto della Fisica galileiana, sebbene ne prepari l’avvento. Non è una molteplicità di “oggetti”, dotati di proprietà assolute, contemplata da un osservatore neutrale posto fuori di essa (osservatore che i moderni battezzano “spirito”). Physis (Natura) per Aristotele, come per tutto il pensiero arcaico, indica l’insieme della nostra esperienza sensibile che è fatta solo di cose in movimento, dove nulla se ne sta mai immobile, dove tutto è passaggio. Natura è esperienza, più precisamente, per utilizzare un famoso lemma aristotelico, è esperienza in atto, natura è una pluralità di “eventi”, una molteplicità di “accadere” e non una totalità di “fatti”. Bisognerà attendere più di 2000 anni e una serie impressionante di rivoluzioni scientifiche culminate nella “nuova fisica” (la meccanica quantistica) per trovare riproposto in sede filosofica un senso così vitale della Natura. Penso, in particolare, al grande filosofo e matematico inglese Alfred North Whitehead e alla sua nozione di Natura come Organismo.
Contro la ricerca dei princìpi primi posti “al di là” dell’esperienza è insorto tutto il pensiero “moderno”
Quello che mi preme sottolineare, insistendo sulla storia materiale della paroletta “metafisica”, è come un piccolo slittamento semantico abbia contribuito se non a produrre, almeno a ratificare la trasformazione dell’ontologia, della Filosofia prima, della scienza regale e sovrana dell’ente in quanto ente (la scienza della verità e la scienza del “divino” che “abbraccia” tutte le cose), in ciò che i nostri manuali registrano sotto l’etichetta di metafisica, vale a dire quella pratica teorica “di nuovo genere”, così diversa dalle altre forme tradizionali di sapienza, che consiste nel trascendere la realtà come si dà nell’esperienza concreta e nel ricostruirla a partire da concetti astratti. La filosofia, in questa accezione “metafisica”, assume un aspetto inevitabilmente “teologico”. Diventa la ricerca dei princìpi primi posti “al di là” (meta) dell’esperienza, dotati delle caratteristiche dell’eternità, della necessità e dell’identità. Se Physis è l’evidenza del cambiamento, del processo e della creazione, metafisica non ne è insomma la negazione – e come si potrebbe, del resto, negare il mondo senza essere ridicoli! – ma la sua fondazione in un Altro che non appartiene al “mondo” (variamente denominato nella storia della metafisica: Idea, “pensiero di pensiero”, Dio creatore, Io puro ecc.).
Contro questo tentativo di spiegare il movimento con l’immobilità, la vita con la non vita, la presenza con l’assenza, non è azzardato dire che è insorto tutto il pensiero “moderno”. Non è possibile, a questo proposito, non evocare il nome di Nietzsche e la sua critica radicale della trascendenza, ma il pensiero di Nietzsche, se guardato a volo d’angelo, tira le file di un processo che era iniziato da almeno tre secoli. Il senso della rivoluzione scientifica non era forse consistito nell’assumere l’esperienza come filo conduttore dell’indagine sulla natura? Galileo non aveva forse osato fare del cambiamento in atto il principio esplicativo? L’esperienza non era stata forse posta dagli empiristi e poi da Kant a radice (o, almeno, come una radice) della conoscenza? Ma tutto questo ha significato, come reputa il senso comune, dismettere la “Filosofia prima”, relegarla nella soffitta del pensiero? Di fatto questo è quello che è accaduto nei nostri dipartimenti universitari dove la filosofia sopravvive ormai solo in tre forme tra loro complementari: da un lato come oggetto museale e documento del “patrimonio culturale” dell’umanità, o di una parte rilevante di essa, quella “occidentale” (come “storia della filosofia”), dall’altro come una sorta di terapia della malattia metafisica condotta attraverso l’analisi degli enunciati filosofici (come “filosofia del linguaggio”). I pochi poi che poi rimangono fedeli alla vocazione “critica” della filosofia – penso alla “decostruzione” di Derrida, all’ermeneutica heideggeriana, alla genealogia foucaultiana, ai gender studies e ai postcolonial studies – lo fanno indirizzando nuovamente i loro strali proprio alla dimensione “metafisica” della filosofia, giungendo a conclusioni non dissimili da quelle da cui muovono “storici della filosofia” e “analitici”: la filosofia è cosa del passato o, peggio, è un’impostura dietro la quale si è nascosta la volontà di potenza dell’Occidente bianco e imperialista. Non c’è da stupirsi, quindi, se gli studenti che entrano per la prima volta nei nostri dipartimenti rimangano poi delusi, dal momento che l’oggetto della loro vocazione, la Filosofia prima, è messa sul banco degli accusati, è giudicata e condannata (a morte).
Ma esiste un fiume carsico – “panteismo, “empirismo radicale” – che rifiuta il metodo della trascendenza
Mi chiedo allora se sia così scontata l’identificazione della filosofia con ciò che Giovanni Gentile aveva chiamato (e criticato) il “metodo della trascendenza” dell’esperienza, se dobbiamo dare per acquisito il senso che l’espressione meta ta physica ha assunto nella tradizione oppure se c’è un altro senso di “metafisica” che non è in contraddizione con l’esperienza, ma che anzi l’afferma in modo integrale. Per un metafisico doc, di quelli che ormai esistono solo nei ricordi dei nostri vecchi professori, il contrario della filosofia è proprio l’esperienza posta come principio e non più trascesa in direzione del concetto. L’esperienza come assoluto, l’esperienza integrale, sarebbe l’antifilosofia. Il fisico che si sbarazza della concettualità metafisica per affermare il primato dell’esperienza si sente dopotutto orgogliosamente antifilosofo. Ma esiste tutta una linea della filosofia occidentale che ha puntato proprio su questa ipotesi per rivitalizzare l’idea di Filosofia prima. E’ un fiume carsico che riaffiora qua e là nella storia del pensiero, attirando sistematicamente su di sé lo stigma dell’eresia (con tutte le conseguenze del caso: vedi Giordano Bruno). E’ variamente denominato: “panteismo”, “filosofia della natura”, “empirismo radicale”. Il dato comune è il rifiuto del metodo della trascendenza, l’opzione per una immanenza assoluta. Ho provato a tracciarne un profilo nel mio Canone minore (Feltrinelli).
Se ci chiediamo quando l’esperienza si fa assoluta, dobbiamo tenere presente che “assoluto” vuol dire “non relativo a”. Nella lingua tecnica della filosofia, assoluto significa essere-per-sé (tale è il significato di quella strana espressione greca kath’auto che compare puntualmente in Platone quando presenta l’Idea fondamento e causa delle cose). Essere-per-sé e non relativamente ad altro ha il senso di una inerenza a sé che i filosofi chiamano immanenza. L’esperienza si fa assoluta quando cessa di essere relativa a un soggetto che la fa, e che quindi si deve supporre in qualche modo al di là (meta) dell’esperienza in atto, e a un oggetto di cui si fa esperienza, il quale, a sua volta, si deve supporre al di là (meta) dell’esperienza in corso. L’esperienza è assoluta quando è emendata da tutti i dualismi che la strutturano: soggetto/oggetto, essere/apparire, cosa in sé/fenomeno, realtà/rappresentazione della realtà e, soprattutto, dal dualismo padre di tutti i dualismi, la distinzione tra essere in potenza e essere in atto. L’esperienza è assoluta quando, in un modo che l’intelletto fatica ad intendere, non è più l’esperienza di qualcuno e non è più l’esperienza di qualcosa, quando non rinvia più a qualcosa d’altro, alla fantomatica “realtà in sé”, quando, insomma, cessa di essere “due” per farsi “uno”.
William James ed Henri Bergson sono avventurieri in un territorio non mappato dalla nostra cartografia concettuale
L’intelletto fatica a intenderlo, dicevamo, ma la vita ci mette di fronte a innumerevoli situazioni in cui l’esperienza si presenta proprio con questo tratto estatico, nelle quali, per così dire, c’è solo “mondo” senza un soggetto che lo costituisca come oggetto per lui. Non sono solo i vissuti del mistico a esemplificarle, ma anche le innumerevoli esperienze-limite che maculano la nostra vita vigile di soggetti (stati alterati della coscienza, sogno, atti mancati, appercezioni ipermnesiche, paramnesie, telepatie ecc.). Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, come esploratori alla ricerca di mondi perduti, filosofi del calibro di William James ed Henri Bergson si erano avventurati in questo territorio non mappato dalla nostra cartografia concettuale. La “coscienza” per loro prendeva una nuova forma che non era né coscienza di qualcosa né coscienza di qualcuno, non era più una coscienza solo “umana”, ma era una coscienza-essere, una coscienza coincidente con l’atto stesso del vivente, una coscienza che non è nient’altro che esistenza. Si aprivano le porte per una sua estensione alla natura tutta in contrasto con il gesto cartesiano che l’aveva invece costretta negli angusti confini dell’uomo (dello “spirito”). Non va trascurato che in quegli stessi anni, un loro grande contemporaneo, Sigmund Freud, stava facendo di queste stesse esperienze-limite la porta di ingresso alla realtà umbratile di una coscienza senza Io, una coscienza-Esso, da lui denominata “inconscio”.
Per non confinare l’esperienza pura all’ambito psicopatologico, si tenga presente che l’esperienza pura era veramente la questione all’ordine del giorno per una scienza assetata di concretezza e stanca delle astrazioni metafisiche. Un bellissimo quanto trascurato libro di Jean Wahl, Verso il concreto del 1932, racconta, per così dire, in presa diretta questa storia, sfogliando le lettere di William James e introducendo per la prima volta in Francia la filosofia dell’organismo di Whitehead. Io mi limiterò a fornirne un esempio “clamoroso” perché convoca tra i testimoni a favore dell’esperienza pura la “nuova fisica” novecentesca. Il luogo comune storiografico vuole che la meccanica quantistica sia un nuovo paradigma della fisica che rivoluziona il paradigma della fisica classica segnando un passaggio dal determinismo all’indeterminismo, dalla necessità delle leggi naturali alla contingenza della natura ecc. Tutto apparentemente indiscutibile. Ma se si guarda da vicino il fenomeno si scopre che la “nuova fisica” non è affatto un “nuovo paradigma” della fisica, perché della fisica classica mette innanzitutto in questione il fondamento “metafisico”, l’idea cioè, tacitamente condivisa e data per scontata dagli scienziati (compresi gli stessi scienziati che formalizzano la meccanica quantistica), che l’esperienza sia un ponte gettato tra un soggetto ed un oggetto, l’idea cioè che l’esperienza sia relativa a qualcuno che la fa e a una realtà in sé posta al di là di essa, quando invece la nuova fisica ce la restituisce proprio sotto la forma di una esperienza pura che solo après-coup diventerà l’esperienza di qualcosa e l’esperienza di qualcuno. Colta nella sua immediatezza, l’esperienza è atto in atto e non un fatto dato in spettacolo ad un soggetto sorvolante l’esperienza. La “situazione dell’oggetto” nella “nuova fisica”, per parafrasare il titolo del celeberrimo saggio del 1923 di Erwin Schrödinger, è veramente problematica perché non c’è oggetto alcuno se non a cose fatte e a misurazione avvenuta. Altrettanto problematica nella nuova fisica è la situazione del soggetto perché l’esperienza in questione è impersonale, cioè radicalmente asoggettiva.
E’ legittimo anche per una filosofia dell’immanenza assoluta aspirare al titolo di “metafisica”, “dopo la fisica”
Ne consegue che è legittimo per una filosofia dell’immanenza assoluta aspirare al ruolo di Filosofia prima e, forse, anche al titolo di “metafisica”. Anch’essa infatti, in un ordinamento ideale del sapere, viene dopo la Fisica, se intendiamo con questo termine una concezione dualistica dell’esperienza, che, come è avvenuto nella storia del pensiero occidentale, può oscillare senza fine tra i poli opposti dell’idealismo (primato del Soggetto) e del realismo (primato dell’Oggetto). Forse, seguendo questa ipotesi di ricerca, si può offrire ai nostri giovani studenti la chance di non deprimersi quando mettono piede nei dipartimenti di filosofia.
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